Vademecum

Viaggio nel Masisi

Lunedì 8 dicembre, giorno di partenza, ritrovo alle otto del mattino ma partiamo soltanto a mezzogiorno. I ragazzi del centro sono molto carichi, è un continuo suonare chitarre, suonare bonghi, ballare e cantare. Il ritmo che hanno, la passione che ci mettono nel suonare quei tamburi creando questo miscuglio di suoni che è un esplosione di energie, è indescrivibile. Assoluta felicità. Poi arrivano le Land Rovers bianche dell’Avsi (ONG con la quale la mia associazione lavora per un progetto europeo chiamato Pepiniere) e carichiamo strumenti musicali e zainetti sul tettuccio. La macchina è molto grande, noi siamo in tutto 11, 8 dietro e 3 davanti. Piano piano usciamo dallo scenario cittadino e ci addentriamo nella campagna. All’inizio sono dolci colline ma più si sale e più si entra nella foresta, lo scenario cambia colori e forme. Tutto è verde e la terra è nera. Si passa da prati verdissimi dove pascolano mucche e caprette ad un paesaggio leggermente più montagnoso fatto di vegetazione bassa, tantissimi bananeti, bambù e canneti. Gli ultimi due giorni della missione saremo in piena foresta equatoriale. La strada non è asfaltata e credo di non averne mai vista una tanto disastrata, non sapevo nemmeno dell’esistenza di una macchina che potesse percorrerla. Siamo in mezzo al fango, la macchina non fa altro che scivolare, le poche volte che non scivola è perché l’autista va talmente veloce che le ruote non toccano nemmeno il suolo, la macchina vola. Si attraversano fiumi e ponti quasi inesistenti, devo essere sincera, sul ponte ho chiuso gli occhi e incrociato le dita! Ad un certo punto entriamo in questa buca fangosa alta più o meno quanto la macchina, l’autista la prende con una certa velocità, le ruote del lato destro non reggono, soprattutto quelle dietro e la macchina si inclina completamente appoggiandosi sul fianco destro. Arrivano degli uomini robusti che cercano di raddrizzarla, l’autista dà il gas ma anche questa volta le ruote non mordono il terreno e noi ci incliniamo sempre di più su una sponda formata da fango molliccio che inizia a franare. Se la sponda non regge la macchina rischia di capovolgersi. Accorrono ancora più uomini, l’autista ridà il gas, questa volta ancora più deciso e non so come ma la macchina riesce a raddrizzarsi e usciamo dal solco.

L’autista ride. Lungo il tragitto ci sono diversi campi profughi: capanne costruite con canne e terra, il tetto è un telo antipioggia, come quelli delle tende, donati dalla UNHCR. Siamo in una delle tante zone dove si aggirano gruppi di miliziani ribelli (congolesi? Ugandesi? Rwandesi? Non si sa bene la loro provenienza ma sono sicuramente poveri e molto violenti, vanno in cerca di cibo, donne e bambini per rafforzare le proprie armate). Le uniche macchine che si vedono per la strada sono altre Land Rovers bianche di NRC (Norvegian Refugee Camp), Save the Children, Concern e altre sigle che non conosco. E poi ci sono camion carichi di viveri, sacchi, contenitori di plastica e uomini. Arriviamo verso le 4 del pomeriggio, il villaggio/cittadina si chiama Masisi ed è costruito su colline e montagne. Dall’alto si vedono tutti questi tetti in lamiera che seguono le linee paesaggistiche. Le casette sono costruite nello stesso modo del nostro centro a Goma: in legno e tetto in lamiera. Alcune sono invece costruite con la terra.

Per il mio soggiorno mi avevano detto che sarei rimasta al centro Avsi per ragioni di sicurezza, invece, una volta arrivati, mi dicono che lì non c’è più posto e così inizia la mia vera esperienza africana. Siamo in un posto che viene chiamato hotel, ovvero una casa di circa 70 metri quadrati circa con 4 stanze e una mini sala, noi siamo in 10. I muri dell’esterno sono in legno mentre all’interno le stanze sono separate dal famoso telo antipioggia, c’è un forte odore di plastica. Per terra è molto sporco, fondamentalmente terriccio portato dall’esterno. Non ho avuto il coraggio di controllare la presenza d’insetti, a volte meglio non sapere. M’installo, con le altre 4 ragazze nella stanza con due letti, essendo noi in 5 posizioniamo a terra questa sorta di materasso molto sporco, il tutto senza lenzuola e senza cuscino. Fortunatamente io le avevo portate le lenzuola. Il bagno? All’esterno: un buco a terra alto 1 metro, uno dal diametro più grande per la pipì e uno dal diametro più piccolo per la cacca. Il fetore è molto difficile da sopportare. La doccia? Una bacinella e due pietre che formano una panchina sulla quale appoggiarla. Sia i due bagni che la doccia si trovano all’interno di tre casettine fatte in legno, il tetto non c’è. L’acqua viene da un tubo che si trova fuori casa e chiaramente è solo fredda … meglio! Dicono che quella fredda rassodi J Fuori non c’è erba solo terra, melma e rifiuti che qua si buttano tranquillamente in giro sia che sia cibo, plastica, carta e lattine. La mattina con una piccola scopa formata da legnetti tenuti insieme da un elastico si spazza via l’immondizia della sera prima, un mucchietto che viene bruciato. La sera con alcune torce e una lampada a petrolio si cucina sul carbone, loro mangiano carne (c’è più grasso che altro), io mangio un pesce e poi patate, ugali e foglie di zucca tagliate a striscette e bollite. Si mangia con le mani.

 

Comincio a mangiare togliendo a pezzettini la parte magra e scartando poi la lisca e la testa che metto in un angolo del piatto mentre nel frattempo mangio le patate. Intuisco che le persone attorno a me mi stanno sfottendo per la maniera in cui mangio. Faccio finta di niente. Ad un certo punto mi chiedono il motivo per cui ho messo la lisca e testa da parte. Rimango perplessa e con innocente spontaneità dico che io lisca e testa non le mangio. Scatta una risata generale, non capisco se sia ironica o seria. Mi sento ancora più a disagio. La ragazza seduta accanto a me prende questo mio scarto, lo divide con il resto dei commensali e se magnano tutto … ridendo. Mi sento ancora più idiota.

 

Si va a letto presto, verso le dieci, non riesco a prendere sonno, le paranoie di essere in un posto non “sicuro per un bianco” mi fanno tendere le orecchie ad ogni suono. Mi risveglio alle 4.30 del mattino perché qualcuno in una stanza ha acceso la radio: musica, un po’ di chiacchiere e risate. Quando uno si sveglia non è scontato che debba fare piano perché il resto dorme, anzi! Alle 6.00 mi alzo, mi vesto e vado a fare una passeggiata, per fortuna trovo un posto dove posso prendermi un nescafè e mangiare un buon chapati. Sono un po’ triste: il giorno prima, ovvero lunedì, non è stato molto positivo, i ragazzi hanno parlato sempre e solo swahili senza mai tradurre o rendermi partecipe, ho passato la maggior parte del tempo a guardarli continuando a sentirmi un po’ sola e un po’ idiota. Comunque nei giorni successivi mi sono adattata e poi ho tirato fuori il carattere, tartassandoli di domande in francese, intrufolandomi nei loro discorsi in swhaili, prendendoli in giro e suonando le marachesh (nacchere) con loro.

 

Il primo villaggio in cui andiamo a fare la sensibilizzazione si chiama Nyabiondo e ci si arriva facilmente in macchina da Masisi. L’attività inizia suonando bonghi, urlando al megafono e facendo il massimo rumore possibile per attirare l’attenzione della gente. Si sceglie un posto, possibilmente in pianura dove poter allestire lo spazio per fare le attività. Nel frattempo si inizia a sentire fervore, bambini che accorrono, donne che si muovono a ritmo di bonghi e vecchiette incuriosite. Ci mischiamo con la gente locale danzando con loro e facendoli cantare, quando vediamo che s’inizia a formare un bel gruppo di spettatori si parte con il teatro partecipativo. Brevemente, si tratta di tre mini scenette che descrivono un po’ i problemi locali quindi un babbo di famiglia che non vuole che i propri figli vadano a scuola perché uno è disabile e l’altro è una ragazza, l’insegnante che caccia via da scuola i bambini che non portano la divisa e i bambini disabili, il babbo che vende la figlia dodicenne ad un uomo molto più grande di lei riscattando la dote. Mentre si recita si pongono continuamente domande al pubblico sulla correttezza degli eventi recitati. Il pubblico risponde sempre positivamente.

Noto che la popolazione è composta soltanto da due fasce d’età: i bambini e gli adulti, la via di mezzo dei giovani (18-25) non si vede ma non perché non c’è ma perché i tratti fisici di queste persone sono così tanto invecchiati dalla fatica che hanno perso la loro giovinezza. Ogni tanto appare pure qualche bimbo con un viso già da grande, rughe e sguardo di rassegnazione. Arriva la pioggia e siamo costretti a correre in macchina, mi resta l’immagine dei bambini che con tristezza ci salutano. Avrei voluto prenderli tutti e portarli via con me.

 

Mercoledì 10 partiamo per raggiungere il secondo villaggio, Kilambo. Sappiamo che la macchina non avrebbe potuto portarci a destinazione ma che una volta trovate le difficoltà avremmo preso delle moto. Attraversiamo paesaggi mozzafiato, lungo il tragitto si vedono campi profughi (tantissimi), scuole costruite da varie ONG presenti sul territorio le quali si riconoscono sempre perché sono in cemento e colorate di bianco e blu, e accampamenti dei caschi blu dell’ONU. Ad un certo punto, siamo sempre dentro la macchina, sentiamo questo grande boato, l’autista lo riconosce subito e ci dice che è un elicottero e che dobbiamo assolutamente fermarci. Scendiamo dal veicolo ancora più incuriositi ed effettivamente vediamo arrivare verso di noi un elicottero che atterra proprio a pochi metri da noi. Nella polvere che si alza a voragine un alto comandante del battaglione nonsocosa ma di indiani sale a bordo con noi e ripartiamo.

Dopo qualche kilometro la strada inizia a farsi brutta, il solito fango e melma. Siamo in mezzo alla foresta equatoriale quindi il clima è molto umido e il fango non riesce mai ad asciugarsi. Dopo diversi tentavi si decide di proseguire a piedi perché di quelle famose moto non si vede nemmeno l’ombra. Zaini, strumenti e viveri in spalla, si parte. La strada è lunghissima, ci abbiamo messo circa 3 ore per arrivare a Kilambo ma cosa non ho visto! Villaggi piccolissimi sperduti nel nulla, qua le case non sono più in legno ma hanno una forma cilindrica e sono fatte in terra, il tetto è un rettangolo in canne di bambù messe in modo così fitto da non far passare la pioggia. La strada è una sola che connette i tre villaggi. Le persone che incontriamo sono uomini, donne e bambini che trasportano sulla testa sacchi e/o cesti pieni di cibo, abiti, legna, banane e tirano caprette o maiali al guinzaglio, queste persone sono i commercianti che raggiungono i vari villaggi nei giorni di mercato – che sono sempre diversi da villaggio a villaggio – per vendere la propria merce. Ogni tanto incontriamo anche qualche militare dalla faccia cattiva e fucile in mano. La vegetazione è proprio da foresta equatoriale, alberi giganteschi, tantissimi tipi di piante, liane e scusate ma non saprei proprio come chiamare tutta la flora che ho visto per non parlare della fauna!! Farfalle enormi stupende, insetti stranissimi e formiche rosse cattivissime che pungono come non mai!!

Il villaggio di Kilambo non è grande e siamo nella più totale semplicità. Non c’è niente, la casa che ci ospita ha un solo letto per dieci persone, il pavimento è la terra dell’esterno, bagno e doccia fuori, sotto qualche albero. Passiamo una notte davvero infinita. Non c’è corrente, mangiamo e ci riscaldiamo con il solito carbone, alle 19.00 c’è il coprifuoco, essendo in una zona rossa soltanto i soldati possono aggirarsi per il villaggio in pattuglie. Io esco lo stesso e vedo uno dei cieli più belli mai visti, le stelle sono innumerevoli e vicinissime, ci sono una miriade di lucciole e si sentono i rumori più strani di animali. La notte non riesco a dormire nemmeno per un minuto, la paura degli insetti mi devasta, siamo tutti sdraiati a terra. Alle prime luci del mattino ci si sveglia e senza mangiare né bere iniziamo la strada per arrivare all’ultimo villaggio della missione. La strada è lunga e in salita. Siamo totalmente immersi nella foresta, fa caldo e le forze diminuiscono. Continuo a chiedermi come mai delle persone possano aver installato la propria abitazione in mezzo al nulla e soprattutto come fanno a vivere.

Lukweti è costruito aldilà del fiume e il solo modo per arrivarci è passare sopra un ponte di canne di bambù sorrette da liane. Non potevamo nemmeno appoggiarci alle liane perché, essendo oblique e lontane rispetto al corpo c’era il pericolo che se tutti si appoggiavano ad esse il ponte si sarebbe capovolto. Quindi: guardare davanti e procedere. Il villaggio, a nostra sorpresa, è molto pulito, ogni casetta ha fuori un piccolo giardino con fiori colorati, sembra quasi di stare in una finta Inghilterra per quanto riguarda la schematicità delle case. Come in ogni altro villaggio la prima cosa da fare appena si arriva è andare a salutare il capo, il saggio e infine il comandante delle armate congolesi.

Sono le 10.00 del mattino ed è caldissimo, io avevo assolutamente bisogno di bere dato che sfortunatamente non posso bere l’acqua del pozzo, chiedo al capo villaggio se c’è la possibilità di recuperare dell’acqua in bottiglia e mi dice di andare a chiedere alla base dei caschi blu che qua vengono chiamati Monuscò. Non ero mai stata all’interno del mondo ONU/caschi Blu e mi sentivo molto eccitata, per mia fortuna si parla inglese quindi dopo aver detto alla guardia di vedetta la mia necessità, mi fa entrare. Vengo accolta da un alto comandante del battaglione armata X, indiano e molto bello. Nel loro compound tutto è pulito, hanno diversi cannoni, mitragliatrici e quant’altro, mi fa sedere nella sala adibita alle visite e mi chiede di cosa ho bisogno. Io sono piena di domande da “donna” e chiedo da quanto tempo sono qua, cosa fanno e se hanno una famiglia in India, quando possono tornare a casa e come fanno a sopportare la lunga distanza da casa. Domande probabilmente idiote da fare ad un alto comandante del battaglione armata X ma ero così stanca, affamata ed assetata che non sono riuscita a pensare ad altro. Dopo qualche minuto mi vedo arrivare 3 belle bottiglie di acqua, 3 pacchi di biscotti e un succo di frutta. Mi chiede se volevo fermarmi a pranzo con loro, rifiuto a malincuore, ringrazio e saluto.

Alle 13.00 dopo la sensibilizzazione ripartiamo. La nostra andatura è lentissima, dopo 3 ore passiamo per Kilambo (il villaggio dove abbiamo dormito), mangiamo un po’ di riso, riprendiamo zaini pesanti, strumenti e viveri e ci incamminiamo di nuovo. Alle 18.00 siamo finalmente a Masisi città, io mi sento poco bene, riesco con le ultimissime forze nel corpo a farmi una doccia fredda, rifare il letto e buttarmici sopra. Ho la febbre quindi mi sento ubriaca, le ragazze mi preparano la cena e mi aiutano ad alzarmi, riesco solo a mangiare una patata lessa e poi svengo. Ci alziamo il giorno dopo alle 6, ci prepariamo e ritorniamo tutti molto contenti a Goma.

 

Ho dormito in case senza porta mentre tutti sapevano della mia presenza, nessuno che ha cercato di venire a disturbare o provare a fare altro.

Ho scoperto quanto il fisico umano è disposto a sopportare malgrado il poco cibo ingerito.

Ho scoperto l’importanza dei privilegi anche quelli più semplici: quando ero a Kilambo e non avevamo né bagno, né doccia né letto, desideravo tanto poter avere quel buco nero a terra e quella bacinella di acqua fredda che avevamo a Masisi città.

Ho scoperto che Marisa significa finire, che Teresa significa scivolare e che Bunga Bunga è la farina …

Ho scoperto il lato più umano e semplice della vita. Mi trovo molto bene qua, sono davvero tanto innamorata del popolo nero. Devo ammettere, a volte è molto difficile perché non ti lasciano mai un istante, sono sempre lì che ti chiamano, che ti chiedono qualsiasi cosa ma hanno una forza, una carica e una voglia di cambiamento (soprattutto i giovani) che è mozzafiato. Stanno davvero lottando contro tutto quello che non va e questa cosa mi emoziona parecchio, come se fossi una bambina. Il mio posto è qua.

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