Rileggere l’Odissea insieme ai propri studenti e al proprio padre ottantunenne in un seminario che durerà qualche mese, per uno studioso di Lettere classiche e docente al Bard College di New York, può diventare un’esperienza originale, sia dal punto di vista didattico e pedagogico sia dal punto di vista narrativo. L’autobiografia dell’autore, Daniel Mendelsohn, proprio per la figura paterna in classe, viene inevitabilmente coinvolta, dapprima nella Telemachia, e quindi in una ricerca di notizie sul padre, poi nel Nostos, l’avventuroso viaggio di ritorno, corroborato perfino da una crociera di padre e figlio nei luoghi raccontati da Omero (e da Ulisse) fino a Itaca. Questo almeno nelle intenzioni o nel procedere a volte inaspettato del dibattito con gli studenti e con gli interventi di common sense paterni, che sono sempre utili nel mettere in discussione l’imponente bibliografia di analisi filologiche su questo classico della letteratura mondiale.

Le due narrazioni si integrano, si sovrappongono, dialogano fra di loro, si scambiano intuizioni ed è anche un confronto tra società che hanno costumi e valori diversi ma si affidano a sentimenti che rimangono gli stessi nel tempo: la curiosità, il desiderio, la diffidenza, il dolore, la vendetta, e la Homophrosynē cioè pensare allo stesso modo, una concordia, “qualità che non può mancare in una relazione tra due persone”, soprattutto marito e moglie. Odisseo e Penelope alla fine si scrutano per ritrovare i loro ricordi lontani, e Mendelsohn racconta dei suoi genitori, del loro rapporto spesso brusco o non idilliaco ma in realtà profondo, tanto che nessuno dei due può fare a meno dell’altro, fino all’ultimo.

Il lettore si sente coinvolto nel seminario attraverso le sollecitazioni erudite dello studioso e le osservazioni vivaci e spregiudicate degli studenti e l’esperienza di vita del padre dell’autore, un matematico che avrebbe desiderato conoscere meglio il mondo cosiddetto umanistico (come se la matematica non lo fosse!), e viene inoltre imbarcato nella crociera che terminerà inaspettatamente con un’altra Itaca: la poesia di Kavafis commentata da Mendelsohn mentre la nave è costretta a ritornare ad Atene.

Sarebbe stato un libro perfetto, forse straordinario, se qualcuno fra tutte quelle persone che l’autore ringrazia alla fine dell’opera avesse avuto l’intuizione e il coraggio di consigliare l’eliminazione di almeno cento o centotrenta pagine. Il saggista conosce la propria misura, il narratore proprio no. I professori-narratori (sempre più numerosi dopo le fortune di Umberto Eco) si perdono in descrizioni totalmente inutili, proprio loro che ci spiegano come funziona la narrativa e che cosa si deve evitare. Infine un appunto sulla punteggiatura: introdurre un discorso diretto con una virgola è un vezzo inutile e irritante. Visto che nei titoli di coda compaiono tanti nomi, nessuno ha avuto la sensibilità di mettersi dalla parte del lettore?

Daniel Mendelsohm, Un’Odissea. Un padre, un figlio e un’epopea, traduzione di Norman Gobetti, Einaudi 2024, Euro 12,50

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