“Chi non sa rendersi conto di almeno tre mila anni
Resta nel buio. Privo di esperienza vivrà alla giornata”.
Goethe
La singolarità (unicità) di Roma in un paese singolare e unico caratterizzato da un tessuto urbano del tutto straordinario in cui “ogni città è un grande individuo”.
Goethe considerava ROMA come archivio della storia mondiale (di allora), l’Italia intera fino ad oggi può essere considerato come un archivio straordinario delle forme e dei modi dell’abitare e del vivere negli ultimi tre mila anni. Funzioni ancora attuali e direi sempre più attuali. Forse solo l’Asia, ma nessun altro paese europeo o americano conosce un tessuto territoriale altrettanto ricco e articolato con stratificazioni complesse rappresentanti il conscio e il subconscio della nostra civiltà.
L’incontro con Insolera (1964)
Ero venuto in Italia per studiare come questo straordinario patrimonio dell’umanità potesse essere salvato e sviluppato (oggi si direbbe valorizzato, ma tutti i termini sono inquinati) tramite processi di industrializzazione dei quali era già noto il carattere tossico, tuttavia considerato salvifico. Frequentando un corso della SVIMEZ nel 1963 ho sentito Pasquale Saraceno proporre le acciaierie di Taranto come investimento chiave per combattere l’arretratezza del Mezzogiorno e redimere I SASSI DI MATERA dando un senso al loro sfollamento in atto, deciso con una legge del 1952. Poi ho conosciuto Italo Insolera. Era appena uscita la sua ROMA MODERNA , un titolo che suonava come un ossimoro, una contraddizione, ma soprattutto una sfida. Per le mie orecchie è stato un titolo di rottura, pieno di speranze. Quasi 60 anni dopo Walter Tocci riassume l’ossimoro in queste affermazioni:
città storica senza storicità/ città mentale senza razionalità/ città statale senza statalità/ città postmoderna senza modernità.
Del libro di Italo mi aveva colpito il punto di partenza: nel 1870 Roma contava 200.000 abitanti, tra di loro tra 20 e 60 mila mendicanti. Un compito immane modernizzare questa città. Un processo complesso da inserire in un quadro più grande che Gramsci aveva chiamato “razionalizzazione della composizione demografica”. Adeguare la struttura demografica e sociale (distribuzione, formazione, mobilità della popolazione) ad un assetto produttivo moderno. Però. La stessa creazione di assetti produttivi moderni provocava ulteriori processi di dissoluzione delle campagne e dei piccoli centri urbani e quindi migrazioni bibliche che hanno portato la popolazione di Roma in cento anni a 3 milioni di abitanti –una mobilità da invasioni barbariche. Cosa fare di queste masse di popolo vittime della dissoluzione e in cammino verso nuovi luoghi di produzione che faticano a nascere?
Allora guardavamo in avanti. Il gruppo di amici che lavorava nello studio di Via del Tempio 4 (Insolera-Salzano-Manieri Elia) alla ricerca di una programmazione territoriale adeguata ai problemi è stato permeato da un ottimismo di fondo. Ricordando il nostro entusiasmo investito nei lavori del PR della provincia di Teramo e nella programmazione della Gallura (ancora vergine e appena venduta all’ Aga Khan), nei piani dell’Umbria ecc. non piango su illusioni perdute, ma sento piuttosto l’orgoglio di rivendicare anche contro “la realtà” di oggi il valore di queste “illusioni” sottoposte naturalmente ad una forte autocritica.
Parcheggi e nicchie
Le affollate e- per quanto riguarda me- completamente sconosciute periferie di Roma ci apparivano come giacimenti di energia umana “parcheggiata” provvisoriamente in attesa di un risveglio, di una valorizzazione. Poco più tardi, arrivato ormai a Urbino, ho fatto l’esperienza che anche le università si stavano trasformando in parcheggi di giovani che da laureati facevano i camerieri sulla costa adriatica. Voglio dire che in Italia, solo parzialmente modernizzata da un “fordismo” avanzato, ma settorialmente e territorialmente limitato, si creavano delle “nicchie” di produzione qualche volta arretrate, altre volte di altissimo livello artigianale moderno mentre una gran parte della popolazione in “esubero” veniva parcheggiata attraverso un welfare del tutto italiano nell’amministrazione pubblica, nelle scuole e università, nelle aree del lavoro nero. Ne risulta oggi un sistema complesso di eccellenza ed arretratezza, di nicchie e di parcheggi.
Un breve confronto con lo sviluppo economico tedesco può aiutare la comprensione. Quel “miracolo” ha la sua radice nella guerra: militarizzazione e disciplina della manodopera, aumento del livello tecnico-professionale, ipertrofia di un apparato industriale in crescita per tutto il periodo della guerra, divisione del lavoro imposta all’Europa che assegna alla Germania le produzioni chiave e agli altri paesi quelle di minore contenuto tecnologico, pace sociale grazie all’ ascesa sociale dei lavoratori tedeschi sostituiti nei settori meno produttivi da lavoratori immigrati in un paese distrutto dai bombardamenti che hanno aperto le città alla motorizzazione.
Non posso approfondire questo confronto confermato del resto da molti studi. Oggi invece la crisi del fordismo e la nuova era digitale comportano grandi cambiamenti. Il sistema tedesco pare si stia “italianizzando” mentre in Italia la rivoluzione informatica impone da una parte un nuovo modello di disciplina sociale (dimostrato nel periodo COVID, lo SPID ecc.) offrendo dall’altra parte alle “nicchie” nuove opportunità di produzione. Con altre parole: il processo di “razionalizzazione della composizione demografica” si svolge oggi sia in Germania sia in Italia in condizioni del tutto inedite. E questo non può non riguardare anche Roma.
Che cosa produce Roma?
La domanda di fondo è ormai questa: Chi decide e come si modifica la struttura produttiva di un paese o di una sua area particolare? Fino a che punto l’assetto demografico deve adeguarsi e fino a che punto la produzione deve rispondere invece alle tradizioni ed esigenze culturali, in particolare a quelle abitative della popolazione?
La seconda metà degli anni settanta ha segnato una svolta nell’amministrazione delle grandi città italiane, una occasione di rivedere e di riorganizzare lo sviluppo selvaggio edilizio e sociale registrato a partire dagli anni ’50 e guidato principalmente dalla rendita fondiaria urbana. A Roma la giunta Petroselli puntava su due obiettivi tra di loro intimamente collegati, anche se questo legame non è semplice da chiarire e ancora più difficile a realizzare: la riqualificazione delle periferie e il progetto Fori. Oggi, scrive Vezio De Lucia, “dell’idea di rinnovare Roma attraverso l’archeologia non resta nulla”. Eppure l’archeologia intesa come ricerca del missing link tra passato e futuro rimane più che mai fondamentale per ogni idea di rinnovamento della “città eterna”. Perchè la produzione specifica di Roma è stata per millenni quella di fornire concetti e simboli di dominio, di ordine, di fede. I cento anni in cui questa capacità creativa fu “nazionalizzata” e indirizzata alla costruzione di uno stato nazionale è stato solo una parentesi. La visione di Roma oggi va inserita di nuovo in una prospettiva europea e mediterranea. Facile dirlo, ma qual è il significato da dare a questa affermazione?
Mi ricordo che Insolera negli ultimi anni della sua vita insisteva su Quintino Sella con accenni anche misteriosi. Ho cercato di decifrare meglio questo interesse, ma ho individuato solo vagamente alcuni possibili spunti. Non credo che Italo si riferiva solo agli interventi di Sella al parlamento nel 1872 per un grande piano delle opere edilizie a Roma, ricordati del resto solo tre volte in Roma moderna. C’è dell’altro. Guardando Berlino diventata anch’essa capitale di una “nazione in ritardo”, per di più una città senza grande storia, Sella auspicava per Roma una funzione simile a quella che Berlino stava acquisendo: un luogo di scienza e di produzione di idee. Bisogna ricordare che Sella è stato un scienziato che condivideva con Goethe l’amore per la mineralogia: “Una passione sola mi cagiona talvolta qualche conforto ed è quella delle pietre”. Le pietre ci spiegano la storia della natura e, possiamo aggiungere, le pietre di Roma, come quelle ascoltate da Ruskin a Venezia, ci raccontano la storia dell’uomo (occidentale). Parliamo quindi di una scienza non ancora del tutto al servizio della produzione capitalistica, bensì al servizio dell’uomo che vuole comprendere sia l’evoluzione della natura sia se stesso e la propria storia. Roma, mi pare, possa svolgere questa funzione generale: essere campo di ricerca e di esposizione di una città europea che ha vissuta senza soluzione di continuità tutte le fasi della nostra storia (recente, di nemmeno tre mila anni). Del resto la Roma frequentata dai popoli “romanizzati”, invasa da barbari vigorosi e ignoranti, visitata da masse di pellegrini, meta infine di aristocratici e intellettuali nel ‘700 è sempre stata questa e ha continuato ad offrire lo spettacolo dello splendore e della caduta di un impero rinnovato dal papato e altrettanto decaduto. Roma ha fornito le immagini che popolano tuttora la nostra fantasia e continua a farlo anche nei tempi del turismo di massa e di una superiorità moderna ricordata da Mark Twain quando scriveva: “Dall’esterno San Pietro non sembrava così grande come il Capitol di Washington, e di certo mostra non un ventesimo della sua bellezza”.
“La ricchezza”
E’ stato Pasolini ad indicare la strada. Caduto in povertà e vivendo nella periferia romana scrive un ciclo di poesie con il titolo “la ricchezza” (1955-1959). L’indice, costruito in sei capitoli, si legge come un romanzo in stile telegrafico, un romanzo di formazione e di risposta alle secche dello sviluppo. Il soggetto non è solo il poeta, ma Roma come specchio della condizione umana. L’indice suona così:
I Gli affreschi di Piero a Arezzo – Viaggio nel brusio vitale – Il ventre campestre dell’Italia – Nostalgia della vita.
II Tre ossessioni: testimoniare, amare, guadagnare – Ricordi di miseria –la ricchezza del sapere – Il privilegio del pensare.
III Riapparizione poetica di Roma.
IV Serata romana – Verso le Terme di Caracalla – Sesso, consolazione nella miseria – Il mio desiderio di ricchezza – Trionfo della notte.
V Continuazione della serata a San Michele – Il desiderio di ricchezza del sottoproletariato romano – Proiezione al Nuovo di Roma città aperta.
VI Un educazione sentimentale – La resistenza e la sua luce – Lacrime.
Da questo ciclo si possono trarre indicazioni importanti per un progetto di Roma. Anzitutto chiarire i concetti di ricchezza; quelli di un sottoproletariato che ha stampato in faccia “un aria di ladri” e quelli di un ceto medio dignitoso, realtà che richiedono specifiche politiche sociali e di lavoro. Ma Pasolini usa anche un altro concetto di ricchezza basato sullo “stupendo privilegio di pensare”, sullo sviluppo dei sensi che sanno cogliere la bellezza della pittura di Piero e il magma delle periferie romane in uno sguardo che- come dice Contini- sa trovare “il sublime dal basso”. Si tratta di “sogni” che, come scrive il poeta, “mi tengono ancorato al mondo su cui passo quasi fossi solo occhio”. L’occhio umano, ricorda il giovane Marx, e in generale “l’educazione dei cinque sensi è un lavoro di tutta la storia del mondo fino a oggi. Il senso prigioniero del rozzo bisogno pratico ha anch’esso soltanto un senso limitato. Per l’uomo affamato non esiste la forma umana del cibo, ma soltanto la sua esistenza astratta come cibo”. La ricchezza, continua il testo, sta nello sviluppo di tutti i sensi che vanno resi umani. Compito della storia è produrre “l’uomo in tutta questa ricchezza del suo essere, l’uomo ricco e profondamente sensibile a tutto” (1844,3).
Difficile trovare una educatrice dei sensi migliore di Roma. Ecco che cosa può e deve produrre questa città stimolando la capacità di godimento dei suoi abitanti e dei suoi visitatori e traducendo in forme concrete reali le esigenze utopiche di un “uomo ricco e sensibile a tutto”. Del resto questo lo sta facendo in tanti modi già da secoli e anche oggi, in forma alienata, con il suo turismo di massa. Solo che la “Roma moderna” nella sua folle corsa per valorizzare la città sul mercato pare abbia perso la coscienza che anche gli educatori vanno educati. Cioè la coscienza che una produzione così delicata come quella dell’ozio e della bellezza richiede infrastrutture e interventi del tutto particolari spesso incompatibili con le esigenze di mercato. Invece Roma può diventare un modello di un bisogno ormai sentito tanto diffuso quanto confuso: produrre meno e produrre altro. Cominciamo a discuterne per non finire come il ciclo pasoliniano in “Lacrime”.
(per i 10 anni dalla morte di Italo Insolera)