Il mio primo incontro con il libro di Pinocchio è avvenuto nelle elementari, non ricordo se in seconda o terza classe. Il maestro Marino Piersanti (Fano, elementari “Filippo Corridoni”, anni 1950-1955) lo scelse come uno dei diversi libri che era solito leggere a voce alta, nell’ultima mezz’ora della mattinata. Fra la seconda e la quarta si susseguirono in questo modo libri molto noti e altri meno. Oltre a Pinocchio, ricordo Cuore di De Amicis, Tre uomini in barca di Jerome K. Jerome, passi scelti de Il Bel Paese dell’abate Antonio Stoppani, alcuni racconti di Fabio Tombari (da Frusaglia e dal Libro degli animali), favole di Andersen e altri tipici prodotti per ragazzi, o per adulti ma adatti anche a ragazzi, di autori dell’Otto e Novecento, italiani e stranieri.

Si trattava di una intelligente bibliotechina da scuola elementare di un maestro che seguiva l’indirizzo della scuola attiva e del movimento di cooperazione educativa di Célestin Freinet. Fra i libri italiani dell’Ottocento, naturalmente, lo spazio maggiore era dedicato a quelli che avevano avuto il compito di “fare gli italiani”, dopo che il Risorgimento “aveva fatto l’Italia”. Il Pinocchio di Collodi era il meno ortodosso e il più fortunato di questo manipolo di libri letti da tutti gli italiani di più generazioni, purché frequentassero almeno le scuole elementari.

Ma, ovviamente, come tutti i bambini, conoscevo già il personaggio di Pinocchio da diversi anni, magari solo come illustrazione e come burattino di legno che si vendeva nelle bancarella della fiera sia nella versione rigida, sia in quella snodabile, sia in quella in miniatura ma animata da pezzi fra loro legati da elastici che si muovevano schiacciando la base mobile del giocattolino; o come proverbiale riferimento al naso lungo che cresce col dire bugie.

Pinocchio, prima ancora che un libro, è da sempre un personaggio del mondo iconografico e orale che circonda il bambino fin dai primi mesi di vita e che diventa un contenuto consapevole della sua cultura già a due o tre anni, o forse anche prima. E Pinocchio è pertanto anche un termine del primissimo vocabolario dei bambini. Inoltre il libro originale è stato oggetto di molte manipolazioni e di edizioni ridotte, anche a pochissime pagine molto illustrate, per bambini in età prescolare. Dai vaghi ricordi di queste illustrazioni traggo la convinzione di una mia conoscenza del personaggio almeno dagli anni della scuola materna.

L’opera di Collodi è indubbiamente il libro di maggior successo di quella serie di volumi pubblicati fra il 1870 e il 1900.

 

Carlo Lorenzini, con lo pseudonimo di Carlo Collodi, pubblicò il romanzo a puntate fra il 1881 e il 1883, in una prima versione più breve distribuita in otto puntate (ne «Il giornale per bambini», supplemento del quotidiano «Il Fanfulla» del 7 e 14 luglio, 4 e 18 agosto, 8 e 15 settembre, 20 e 27 ottobre 1981), che si concludeva con la morte di Pinocchio impiccato (all’incirca i primi 15 capitoli della versione definitiva in 36 capitoli). Il titolo era «La storia di un burattino». Costretto, in un certo senso, a continuare la favola a causa del suo successo e della richiesta dei lettori e dell’editore, Collodi, col titolo mutato in «Le avventure di Pinocchio», la terminò nel 1883, pubblicando altre puntate nei numeri del giornale dal 16 febbraio al 23 novembre 1882 e 25 gennaio del 1883. Nello stesso anno, con qualche modifica, uscì in volume (Carlo Collodi, Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino, Firenze, Libreria Editrice Felice Paggi, 1883, pp. 236,IV, formato 18 cm, con 62 illustrazioni), illustrato da Enrico Mazzanti, primo dei tantissimi illustratori del libro nelle moltissime edizioni successive.

L’enorme fortuna del romanzo sorprese lo stesso Collodi, autore di diversi altri libri, tutti, però, di livello assai inferiore. Scrittore già collaudato di libri educativi e per bambini, lo era più per mestiere che per autentica vocazione. È da questo paradosso, si può dire, che nacque il capolavoro, unico nell’ambito delle opere di Collodi, ma soprattutto unico nella storia della letteratura per ragazzi in Italia. Pinocchio, con le sue ormai circa 250 traduzioni, è in assoluto il libro italiano più tradotto e ristampato in centinaia e centinaia di edizioni in tutte le lingue. Credo che solo la Bibbia abbia più traduzioni. Non Shakespeare, non Dante, non Leopardi ([1]).

In che cosa consiste il paradosso? Collodi è spinto a scrivere questo libro per ragazzi dalla necessità di guadagnare e non dalla vocazione educativa o comunque letteraria. Era però uno scrittore capace, arguto, scanzonato, toscanaccio quanto basta, che vivacchiava fra opere di diverso carattere e varie collaborazioni a periodici, senza sentire nessun particolare richiamo per una “grande opera”. Messosi a tavolino a scrivere, comincia con un inizio che è quasi uno scherzo e prosegue con tono analogo, quasi con il piglio di chi voglia canzonare i seriosi libri per ragazzi prodotti in Italia nel corso dell’Ottocento da educatori, maestri e docenti di scuole varie.

Poi, evidentemente divertendosi lui stesso, prosegue su questo registro fino allo sberleffo dell’impiccagione di Pinocchio, con la quale pensa di chiudere il gioco ormai durato fin troppo. Costretto a riprendere la storia, il registro di scrittura continua sul tono scanzonato, introducendo però via via una progressiva normalizzazione educativa e morale, fino al lieto fine, edificante e del tutto difforme al precedente finale con l’impiccagione.

Calvino ha parlato del carattere picaresco di Pinocchio. C’è del vero, ma va precisato che il pìcaro classico è un furbo che ama il vagabondaggio e l’avventura e nella vita di strada si trova a suo agio. Pinocchio invece è un ingenuo che all’avventura e al vagabondaggio è trascinato suo malgrado, perché la tendenza interiore, del suo carattere, a inseguire il divertimento e a scansare il lavoro prende in lui sempre il sopravvento.

Pertanto, più che il picaresco, è un altro carattere della cultura popolare, e popolaresca, di cui il toscano Collodi si mostra ben nutrito, che dà fin dall’inizio il tono alle avventure di Pinocchio. È quello della tradizione popolare del “mondo a rovescio”, con la quale gli umili, i poveri, i deboli sognano il rovesciamento dei rapporti. Ed ecco, in questo genere letterario popolare, apparire monti di formaggio e maccheroni, fiumi di vino, padroni che lavorano mentre i villani fanno festa, e così via. Il «Paese dei Balocchi» in cui i ragazzi vivono divertendosi fino a trasformarsi in ciuchi si può ben leggere come una variante del boccaccesco Paese di Bengodi e dei tanti Paesi di Cuccagna della tradizione popolare.

C’è però anche l’aspetto triste degli innocenti che vanno in prigione mentre i ladri sono benvisti, giocato in chiave satirica e critica.

Questo mondo, che Collodi utilizza in modo scanzonato e umoristico e non certo in chiave utopistica, è presente sia in vari momenti della struttura della favola, sia in diverse battute che proprio per questo assumono un tono comico e paradossale.

Un secondo elemento della cultura popolare calato nel romanzo, sempre utilizzato in modo scanzonato, fra il serio e lo scherzo comico, con elementi anche di parodia, è quello dei proverbi e delle sentenze moraleggianti, che Collodi, qualche volta, trasforma in sentenze lapalissiane, come nella celebre disputa fra i tre medici a consulto al capezzale di Pinocchio, che è anche un esempio di presa in giro satirica della cultura ufficiale (qui, medica) e del suo tronfio accademismo inconcludente.

Com’è proprio della tradizione popolare, favolistica e non favolistica, ma sempre a suo modo moraleggiante, i personaggi sono spesso degli animali antropomorfizzati, che incarnano anche nel loro aspetto fisico i diversi caratteri umani. E frequenti sono le trasformazioni, da umani ad animali e viceversa. La metamorfosi, come metafora favolistica, morale e satirica, è ben presente in ogni tipo e livello di letteratura orale e scritta fin dai tempi più antichi. Riguardano aspetti cruciali dell’esistenza, come ad esempio la punizione o la premiazione, l’inganno, il mascherarsi e l’occultarsi, il decadere o il rinascere o il salire nella scala delle creature con caratteri morali. La trasformazione è anche atto di potere magico, di riduzione a schiavitù in forma non umana, di prigionia e di sofferenza a causa di un potere malefico.

Tutto ciò, in Pinocchio, si scioglie e distribuisce in forma leggera, in scrittura e invenzione felice, sempre in punta di penna e di fantasia, senza preoccupazioni moralistiche, e proprio per questo riuscendo infine tanto più efficace. Così quando si arriva al terzo aspetto, che non è più quello popolare del mondo rovesciato o dei proverbi, ma quello borghese del burattino che si trasforma in un bambino per bene, descritto con tutti i contrassegni del figlio di buona famiglia, il lettore non coglie la contraddizione, apparente o reale che sia, ma si rallegra nella catarsi del lieto fine. Lieto e veloce, perché racchiuso tutto nel solo ultimo capitolo.

Del resto, il popolo del mondo rovesciato che cos’ha di diverso? Non è forse un popolo che sogna di vivere come i padroni? Di elevarsi a una condizione migliore e più umana, anzi la sola veramente umana? In queste ultime pagine il moraleggiare di Collodi si fa più serio, secondo un canone educativo più comune, e conclude affermando che «quando i ragazzi, di cattivi diventano buoni, hanno la virtù di far prendere un aspetto nuovo e sorridente anche all’interno delle loro famiglie». Il Pinocchio vagabondo e avventuroso ha ceduto il posto al bravo figlio di mamma.

E che mamma! È la fatina protettiva, che ha i suoi alti e bassi nel corso delle avventure del disobbediente e bugiardo burattino, che però alla fine, con la trovata della malattia e della miseria da melodramma, quasi parodistica, permette a Pinocchio, che in fondo ha un cuore d’oro, di fare quella buona azione che lo riscatta e trasforma definitivamente in un ragazzo in carne e ossa. Pinocchio, infatti, si sacrifica nel lavoro per accudire e mantenere il padre Geppetto e la Fata Turchina, entrambi ammalati.

Se proviamo a collocare tutto questo all’interno di un racconto di formazione, il romanzo si arricchisce di altri elementi che gli studiosi di Pinocchio vi hanno individuato. Dai prestiti mutuati dal Boccaccio (Gerard Kamber, 1969) agli elementi cristiani, ma desunti piuttosto dai alcuni Vangeli apocrifi che ci raccontano di un Cristo che nasce da un legno animato e che attraverso le sue varie vicende rivela la natura dell’anima umana e divina insieme; ed a quelli esoterici (Collodi era un massone praticante). Il romanzo sarebbe pieno di simboli massonici, a partire dal nome composto da “pino”, legno simbolico per i massoni, e da “occhio”. In tutte queste diverse interpretazioni si tratterebbe sempre e comunque della formazione di un personaggio privo d’anima (nel senso che la sua anima è nascosta e a lui stesso sconosciuta) che, passando per un processo di graduale iniziazione, arriva a conoscere la sua vera natura. Ma i riferimenti alla tradizione novellistica, ai Vangeli e alla massoneria sono comunque sempre riferimenti a tradizioni antiche e popolari, con la massoneria propria delle corporazioni di mestiere piuttosto che di quella colta e moderna nata in Inghilterra alla fine del Settecento. Non si esce, dunque, dalla cultura popolare del «mondo alla rovescia».

  Ecco i tre livelli in cui il racconto delle avventure di Pinocchio mi sembra strutturato: quello del mondo a rovescio, dei proverbi di sapienza e morale popolare, e infine quello della buona borghesia della seconda metà dell’Ottocento italiano, attiva e filantropica, tutta concreta morale pur senza ipocriti moralismi. Abbiamo così una specie di fotografia della famiglia nucleare del 1880, formata dalla buona madre, dal padre attivo (Geppetto riprende sano, arzillo e di buon umore la sua professione di intagliatore in legno, cioè di artigiano di buon livello, tipico esponente della media borghesia), dal figlio, ragazzo ormai sui dieci anni, convertito alla bontà, allo studio e al lavoro.

È tuttavia una famiglia adottiva, non naturale, che nasce da un gesto di creazione di Geppetto che fabbrica un burattino, non perché faccia il burattino, ma con l’intenzione esplicita fin dall’inizio di farne suo figlio. Nell’eclettismo morale ed educativo, scanzonato e talvolta beffardo, di Collodi, in questa storia di formazione di un personaggio tanto particolare com’è Pinocchio c’è forse, oltre agli elementi già ricordati e ripresi dalla tradizione popolare e favolistica e da quella più recente del romanzo picaresco e d’avventure, anche qualcos’altro.

Solo a titolo di ipotesi, azzardo l’idea che Collodi abbia anche, in qualche misura, attinto, o comunque pensato, al romanzo gotico, dal primo modello del Frankenstein o il moderno Prometeo di Mary Shelley (1818) ad altri successivi. Si tratta di un tipo moderno di metamorfosi. L’uomo, con la sua scienza e la sua volontà, dà vita alla “creatura” artificiale, emulando l’opera di Dio e della natura. Certamente lo spirito gotico è lontano dalla scrittura di Collodi, ma il Geppetto che crea Pinocchio è pur sempre un emulo del dottor Victor Frankenstein che crea la creatura nota come “mostro di Frankenstein” o semplicemente “Frankenstein” (mutuando il nome dal suo creatore). Emulo, ovviamente, nello stile proprio di Collodi, che trasforma la favola gotica in favola per bambini piena di umori comici e satirici e infine morali ed educativi.

 

 

 

 

 

([1]) Una recente indagine calcola che, esclusa la Bibbia, il libro più tradotto sia ora Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry, con 253 traduzioni. Pinocchio lo segue da vicino, secondo in graduatoria e unico libro italiano compreso nella classifica dei cinquanta più tradotti.

 

 

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