In Vite che non sono la mia (Einaudi, 2011) che cosa muove, in profondità, l’indagine di Carrère? La bambina di quattro anni travolta dall’onda dello Tsunami, la giovane cognata che scopre di avere un cancro incurabile : fino a che punto si può raccontare l’indicibile, che si è preso la nostra precaria quotidianità? Carrère diventa il testimone non più secondario, il luogo dove le storie vengono archiviate, verbalizzate, riscritte. Prende appunti, intervista, fa persino degli stage. Insieme alle storie degli altri racconta anche la sua e quelle dei suoi cari, non solo per legami parentali o di amicizie che l’indagine stessa approfondisce, ma per onestà letteraria, che arriva al punto di sottoporre il manoscritto alle persone che ne sono diventate i personaggi. C’è come un fuoco che attrae e terrorizza nello stesso tempo, che deve essere scrutato e verbalizzato ma è indescrivibile e oscuro come il destino nelle tragedie greche. Eppure fa parte della nostra esperienza. Le tragedie gettano una luce nuova sulle relazioni che prima l’autore viveva superficialmente. Carrère vuole capire come le abitudini, gli affetti, le amicizie, il lavoro, i sogni, sono stati lesionati dall’irruenza del tragico. Esistenze che passavano una vacanza su una riva asiatica o che combattevano battaglie giuridiche in difesa dei più maltrattati, si trovano di colpo proiettate in un dopo che non volevano, che è desolatamente privo di un legame importante che prima avevano, in un lutto che non sanno elaborare, che non vorrebbero elaborare. Non accade nulla, nel libro, che non venga già annunciato subito. Il romanzo, se è un romanzo, non vuole sorprendere, vuole capire, e per questo ha bisogno della assoluta sincerità, fin dove è possibile. Tuttavia è proprio qui il mistero o più banalmente l’imprevedibilità della vita. Le parole non riusciranno ad esorcizzare i fatti. Potranno solo delicatamente scomporli, mostrare quello che si è fatto per cercare il corpo della piccola Juliette, e descrivere come l’altra Juliette collabora con il giudice Étienne suo amico per difendere i più deboli, quelli che hanno contratto debiti inestinguibili, e infine descrivere la sua graduale consapevole estinzione, e i legami affettivi recisi. La cognata Juliette, nel suo letto d’ospedale, vede “la malattia come qualcosa che mia spia da quella poltrona”. Ma su tutto e su tutti pesa quel punto oscuro. È un dovere morale per Carrère scrivere queste storie che non sono la sua, che diventano però anche la sua e quella di ogni lettore, per la qualità e la sensibilità di questa scrittura narrativa.