resilienza. Il top, insieme ai due vocaboli successivi, della moderna ipocrisia liberale. Accantonato per sempre il termine fastidioso (e fuori tempo) di resistenza in quanto indicante contrasto e conflitto – signori, l’età liberale è pacifica per definizione! – subentra da tempo questo nuovo termine che, senza tante circonlocuzioni o giri di parole ha, nell’uso comune del linguaggio corrente, un significato preciso, quello di adattamento. È l’illusione che va lasciata ad allocchi e disadattati: un termine assonante con “resistenza” che può appagare qualche forma di rifiuto della realtà e illudere su una qualche possibilità di correggerla. Per poi acquietare le coscienze e tornare tranquillamente a dormire.
riforma. Il vero capolavoro del nuovo lessico liberale indicante un tempo la trasformazione in senso positivo ed evoluto (per i subalterni) delle leggi e delle norme a presidio del vivere civile. A suo tempo la riforma della scuola o la riforma sanitaria rappresentarono un innegabile miglioramento dell’accesso e delle modalità di erogazione di servizi fondamentali connessi a diritti imprescindibili quali l’istruzione e la salute . In tempi remoti la riduzione dell’orario di lavoro a otto ore rappresentò una riforma di capitale importanza per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro di tante e di tanti. Ora è cambiato tutto. Per riforma ora si intende, in sostanza, la progressiva erosione dei diritti fondamentali, la regressione sistematica della legislazione sociale, sempre più punitiva nei confronti del lavoro e sempre più premiante per il capitale, l’adeguamento di ogni ambito civile all’indiscussa e indiscutibile dittatura del mercato. I diversi “riformatori” e i vari “riformismi” presenti in ogni schieramento politico sono ormai il terrore degli sfigati che, non essendo “imprenditori di sé stessi”, non hanno altra prospettiva che lavorare tutta la vita alle dipendenze di qualcuno. Fino a che qualche “riformatore”, magari di sinistra, più “coraggioso” di altri (visto che al lavoro servile ci siamo già), non proporrà la reintroduzione della schiavitù e della servitù della gleba, il tassello finale che ancora manca per completare lo straordinario ciclo di riforme degli ultimi trent’anni.
rivoluzione. A completare un altro trittico della finzione, con resilienza e riforma, il vocabolo eversivo per eccellenza. Un tempo indicante un rivolgimento, anche violento, dell’ordine politico e sociale a tutto vantaggio delle classi subalterne, ha assunto stabilmente il significato opposto, ovviamente perdendo per strada quel carico che implicava anche l’uso della forza per raggiungere l’obiettivo di una possibile emancipazione e liberazione. Nella pacificata civiltà liberale le rivoluzioni sono tutte quelle trasformazioni economiche e sociali, ma anche politiche (a parole, non-violente) che tendono a spazzare via tutto ciò che vincolava le classi dominanti a norme e ordinamenti, imposti dalle costituzioni democratiche a tutela delle componenti più deboli del vivere sociale, per affermare l’incontenibile legge del mercato, unica ragione civile delle relazioni tra esseri umani. A parte il fatto che per raggiungere tale obiettivo a volte è stata usata una violenza feroce (vedasi gli interventi “umanitari” e “liberatori” dal dopoguerra in avanti in Guatemala, Iran, Indonesia, Cile, etc.) molto superiore a quella usata a suo tempo da giacobini e bolscevichi, c’è un piccolo particolare. Un’organizzazione sociale pressoché priva di regole dopo le travolgenti rivoluzioni liberali che l’hanno scossa dalle fondamenta tende più a rassomigliare ad una giungla che a un consesso civile. E a quel punto qualcuno più sincero di altri dovrà dire finalmente, sulle macerie fumanti dello stato di diritto, che proprio quello era l’obiettivo delle stesse “grandi” rivoluzioni: una giungla sterminata in cui sarà sempre la bestia più feroce a farla da padrone e tutti gli altri a darsela a gambe per non essere divorati. Con buona pace di un’umanità regredita – libera, felice e consapevole – allo stadio animale.