1. “Mi chiesi come ci si dovesse sentire a condurre una vita nella pubblica amministrazione – scalando le gerarchie, accumulando credenziali, muovendosi sempre sul filo del rasoio, probabilmente possedendo uno smoking – solo per ritrovarsi a compiacere il crescente centro di potere della Silicon Valley, con i suoi baby-tiranni, tutte quelle meteore che avevano abbandonato gli studi ed erano diventati i capi di se stessi e pensavano di sapere come funzionava il mondo, pensavano di sapere come aggiustare ogni cosa”. Questa la cruda descrizione del cuore della rivoluzione digitale da parte di Anna Wiener ne La valle oscura (Adelphi), il racconto autobiografico di un’esperienza di lavoro (allucinogena più che allucinante) presso i giovanissimi santoni delle tanto declamate start-up del web. La parabola che porta una ragazza di poco più di vent’anni a cercare una nuova vita professionale e nuovi stimoli nella mitica San Francisco – una città trasfigurata dall’esplosione del tech, pallidissimo ricordo delle esperienze di controcultura del secolo scorso – abbandonando una modesta occupazione in campo editoriale a New York. Un viaggio, all’inizio una specie di allegra odissea, in un mondo per lei inimmaginabile, pieno di gratificazioni economiche fondate sul nulla, dove è il cinismo più spietato a farla da padrone e la totale indifferenza per i propri simili è la regola costante delle relazioni umane e dove la legge suprema, quasi divina, a governo delle cose e degli uomini è la più feroce e spietata competizione tra aziende, manager e loro finanziatori per affermarsi (o sopravvivere) davanti al tribunale supremo della vita e della morte: il mercato! Almeno fino a che Anna, sempre più consapevole, si chiama fuori – oggi, a poco più di trent’anni è un’apprezzata corrispondente da San Francisco del “New Yorker” – staccando la spina da quella giostra folle e insensata nel momento in cui arriva amaramente e desolatamente a concludere che “il mio personale fardello psichico era che potevo pretendere uno stipendio a cinque zeri, eppure non sapevo fare niente”. Finalmente, dopo tante elucubrazioni elegiache (e anche qualche critica astratta) sul mondo fatato del web e sul paradiso terrestre rappresentato dal luogo di massima concentrazione di imprese tecnologiche – la Silicon Valley, appunto – uno sguardo dall’interno, attento, lucido, spietato quanto quel mondo che ci sta accompagnando, inconsapevoli, verso il delirio. I paradigmi consolidati con cui si misurano da tremila anni le relazioni umane in quel lembo di terra californiana senza speranza non esistono più, spazzati via per sempre da una nuova antropologia di robot e replicanti sotto forma di ventenni miliardari, misogini, semi-analfabeti senza scrupoli tesi solo ad accumulare fortune, totalmente indifferenti a tutto il resto. La nuova/vecchia religione numerica, la primitiva teologia computazionale, di un’economia senza corpo né anima non lascia più scampo a nessuno. Resta solo la Misurazione. Ecco il futuro! E’ arrivato il Nuovo Mondo! Speriamo di ritrovare presto le armi per fermarlo prima che ci ammazzi un po’ tutti.
2. E sul nostro disarmo unilaterale degli ultimi decenni è sviluppato il saggio di Marco D’Eramo Dominio (Feltrinelli). Perché le armi che ci hanno un po’ alla volta sfilato di mano i dominatori sono abbondantemente servite – questa la tesi dell’autore – per scatenare negli ultimi cinquant’anni una guerra senza precedenti contro di noi – i dominati – e per costruire questo orrendo Mondo Nuovo anche attraverso i mostri che popolano la Silicon Valley. Ma è urgente che quelle armi vengano riprese dagli sconfitti per provare a ricostruire una dimensione umana nelle cose e tra gli uomini. La storia – come ci racconta D’Eramo – è molto, molto, lunga, parte molto tempo fa dal disorientamento e dal senso di frustrazione e di sconfitta del capitale e dei suoi epigoni di fronte all’inarrestabile, impetuosa, avanzata delle conquiste democratiche del movimento operaio nel secondo dopoguerra durante i cosiddetti “trenta gloriosi” (1945-1975). E dalla reazione dei grandi capitalisti (prevalentemente anglo-americani) che con le loro potentissime e ricchissime fondazioni avviano un’incontenibile contro-rivoluzione apprendendo alla lettera il consolidato metodo gramsciano della conquista dell’egemonia – la counter-intellighentsia – attraverso il finanziamento mirato delle imperturbabili – e allora quasi clandestine – discipline economiche di orientamento neo-liberale, delle università più o meno vicine a queste scuole, degli autori che al meglio interpretano il vecchio/nuovo credo anche provenienti dall’Europa (von Hajek e von Mises su tutti), delle pubblicazioni e delle riviste da diffondere a piene mani nel mondo accademico e non solo. Non basta privatizzare tutto, bisogna “privatizzare anche il cervello umano”. L’idea martellante che diventa irresistibile per gli sprovveduti gruppi dirigenti della sinistra europea (inglesi e italiani su tutti, New Labour e ex-Pci-Pds-Ds-Pd) è che non c’è alternativa al trionfo del capitale (Thatcher) perché “il capitale è natura” in quanto “le leggi del capitalismo sono apparentate sì con le leggi divine, ma nella forma che queste assumono nella modernità, e cioè di leggi naturali”. E, si badi bene, ciò non si riferisce ad “un regime economico [relativamente] recente” ma ad “un paradigma che regolerebbe da sempre e per sempre il comportamento degli umani”. Al di fuori della dimensione economica del capitale abita il nulla. Ogni altra dimensione dell’attività umana può solo disciplinatamente “servire” (da cui la riabilitazione della stessa economia schiavista), in particolar modo “la politica” e “lo stato” che in questo contesto, totalmente in balia di quello che appare un delirio purtroppo diventato il nostro presente, diventa appunto un “privato” ormai “affidato a quella bizzarra attività […] chiamata ‘politica’”. Lo scopo della politica è quindi quello di assumere il controllo aziendale dello stato concepito come la massima ditta di servizio a tutte le altre ditte”. Esiste solo l’impresa, il lavoro scompare come categoria distinta dal capitale. Tutti possiedono “un capitale umano” (anche gli schiavi) e quindi non esistono più ragioni per contrapporre il lavoro al capitale: tutti sono “imprenditori di se stessi”, anche nelle piantagioni di cotone! Siamo alla Silicon Valley: “nel convertire tutti i problemi politici e sociali in termini di mercato il neoliberismo li converte in problemi individuali con soluzioni di mercato [………] La privatizzazione come valore e pratica penetra in profondità nella cultura del cittadino-suddito. Se abbiamo un problema, cerchiamo un prodotto per risolverlo.” Ma cercare ossessivamente una soluzione ai nostri problemi nelle merci non basta a creare “l’uomo nuovo”. Occorre uno strumento non più disciplinare ma di controllo (Deleuze) che, rendendo eterna la colpa, leghi definitivamente l’individuo, il singolo, alla vecchia fede spacciata per nuovo credo. E allora “il debito è la tecnica più adeguata per produrre l’homo oeconomicus neoliberale” (Lazzarato). Ma qual’è nel nuovo credo il padrone assoluto che tutto sovrasta e sovrintende? Nella cultura greca era il fato, nella religione neoliberale è l’algoritmo, il dato uniformante e omologante totalmente “indipendente dall’oggetto a cui si applica”. Da qui il basso (a volte bassissimo) livello della qualità delle diverse mansioni dell’attività umana e delle merci (e dei servizi) che questa produce, tutte assoggettate ad una logica che prescinde totalmente dalla diversa natura delle prestazioni e dalle diverse modalità di produzione delle merci (e di erogazione dei servizi): fabbricare un’auto non è operare un intervento chirurgico, anche se, nella logica delirante che a questo punto governa il mondo, entrambe le cose devono risultare misurabili, funzionando “la matematica come strumento per oscurare la natura altamente opinabile […] dell’economia” e come “cortocircuito per consentire a quest’ultima uno statuto di scientificità”. Ma applicare modelli astratti, tutti uguali, a “situazioni multifattoriali, e quindi non lineari, sfiora la ciarlataneria.”Siamo ad una forma di ’imperialismo’ epistemologico dove la figura “mitica dell’imprenditore assume “qualità sovrumane” come conquistatore, organizzatore e mercante” (Sombart) oppure “condottiero, statista e profeta” (Schumpeter) come nella realtà è accaduto per la beatificazione post-mortem di Steve Jobs, fondatore della Apple. Ecco perché, mentre il nostro campo l’ha buttata alle ortiche, per David Petraeus, generale dei marines, l’ideologia è così importante da risultare decisiva nel “gioco” della guerra. E ancor di più – aggiunge D’Eramo – la fede: “nel libero mercato e nella mano invisibile ci si crede come si crede nella Trinità o nella doppia natura umana e divina di Gesù” perché “il capitale umano è l’equivalente dell’anima.” E’ così che nasce un’umanità di mostri, a partire da quelli della Silicon Valley.
Un quadro a dir poco sconvolgente ma spaventosamente realistico quello descritto dall’autore nelle oltre duecento pagine del volume che alla fine, giustamente, richiama ad un impegno, ad una lotta, ad una vera e propria “guerra culturale” per l’egemonia che, dopo decenni di cedimenti e rincorse di farfalle, ribalti una situazione globale che ci sta portando dritti al disastro antropologico in quanto esseri umani e alla distruzione sistematica del pianeta. Un compito immane, difficilissimo, anche perché troppo spesso noi dominati abbiamo dimenticato chi siamo mentre loro, i nemici – i dominanti – ci stavano semplicemente studiando per imparare come riprendere vita e sconfiggerci: in fondo “nel 1947 i fautori del neoliberismo dovevano quasi riunirsi in clandestinità, sembravano predicare nel deserto, proprio come noi ora.” E, tra le cose che abbiamo dimenticato, quella più importante: “una scuola pubblica, universale, gratuita [come] presupposto per l’indispensabile, immane lavoro di rialfabetizzazione politica”, ripristinando anche la coerenza di un linguaggio invertito di segno dalla contro-rivoluzione neoliberale dove le parole hanno ormai un significato opposto a quanto indicavano nel secolo scorso: si veda il termine “riforma” abusato dalle classi dominanti negli ultimi decenni per indicare il suo contrario – la progressiva erosione dei diritti consolidati nel XX secolo – ormai ovviamente percepito dai senza potere come sinonimo di regressione civile. Un testo, quello di D’Eramo, da leggere con grande attenzione se vogliamo capire cosa è successo negli ultimi cinquant’anni a partire dal cosiddetto “cuore dell’impero”, gli Stati Uniti d’America. Anche se alla fine almeno una domanda rimane nel testo inevasa: in pieno XX secolo (il 1947, appunto) esisteva la forza materiale del partito politico (novecentesco) e quella di un campo di forze contraddittorio ma temibile per le forze dell’impero e temuto dal capitale, dal campo socialista ai paesi in via di emancipazione dal colonialismo occidentale. Oggi dove rintracciare la massa critica in grado di dare forma a uno o più consistenti soggetti effettuali in grado di fermare questa folle rincorsa all’autodistruzione? Al termine di una lettura così appassionante mi sarei aspettato qualche indicazione in più.