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Milena Agus e la magia della scrittura

MILENA AGUS E LA MAGIA DELLA SCRITTURA

Milena Agus appartiene alla ricca e interessante fioritura di scrittori che alcuni definiscono “ la nouvelle vague sarda” che comprende, tra i più noti, Salvatore Niffoi, Marcello Fois, Michela Murgia, Bianca Pitzorno. Non si tratta né di un movimento né di una aggregazione, i temi dei loro romanzi sono diversi, ma, come dice la stessa Agus, “ci accomuna un modo di sentire il mondo, di guardare le cose, un po’ da estranei. Noi pensiamo a qualsiasi cosa mettendoci il mare in mezzo. L’isolamento fisico crea una sorta di straniamento”.

Con la produzione della Agus entriamo nel nuovo millennio (pubblica il suo primo romanzo Mentre dorme il pescecane nel 2005); siamo ormai in un contesto storico completamente nuovo, dominato dalla crisi dei massimi sistemi economici, dal relativismo imperante, dalla perdita di fiducia nella possibilità di cambiamento del reale da parte degli strumenti classici a questo delegati, cioè l’impegno culturale, sociale e politico. Tutto sembra essersi evaporato, sbiadito e l’universo letterario è preso da un’orgia della quantità, in cui si accumulano libri che emergono per breve tempo e rapidamente scompaiono, annullandosi l’uno con l’altro. Si ripetono clichè vecchi e modelli già visti col trionfo dei filoni, dei generi collaudati (il noir, l’erotico, il sentimentale, il pulp, il gotico ecc.) sempre con un occhio alla possibile trasmigrazione nel cinema o nelle fiction televisive. Ne conseguono incertezze e confusioni nella produzione letteraria di questi quindici anni del nuovo secolo e una sorta di horror vacui, che di fatto si concretizza in una assurda corsa alla costipazione, caratterizza il mercato editoriale.

Ho cominciato ad apprezzare Milena Agus, scrittrice estranea ai circuiti mediatici, nel 2007, dopo la lettura del suo secondo romanzo, Mal di pietre (Nottetempo, 2006). Il motivo è stato direi banale, per dirla con Daniel Pennac: “un romanzo deve essere letto come un romanzo: placare prima di tutto la nostra sete di racconto “; in quel primo romanzo e in quelli successivi, ho trovato dapprima il piacere della storia, dell’intreccio mai scontato, capace di sorprendere, di stupire; solo in un secondo momento, ho colto ed anche spesso condiviso la sua visione della realtà. Conosciuto prima in Francia, il romanzo è stato lì accolto da giudizi entusiastici, addirittura “Le Nouvel Observateur” l’ha definito il romanzo sulla “ Bovary sarda “. Al di là degli iperbolici e azzardati accostamenti, è sicuramente un piccolo gioiello. Il titolo condensa il tema centrale di cui si parla; dal punto di vista letterale con l’espressione “mal di pietre” si indica nel gergo sardo la sofferenza dovuta ai calcoli renali di cui la protagonista soffre, ma attraverso la lettura ci si rende conto che il vero tema è ciò di cui essi sono la metafora: cioè il “mal d’amore” e, più ampiamente, l’inquietudine spirituale, il male di vivere di cui soffre chi è diverso, chi disturba l’ordine imposto dalle catalogazioni sociali, e la protagonista, perché donna e con una personalità assolutamente libertaria, è una di queste creature.

L’incipit annuncia subito l’evento spartiacque della storia e ci presenta la protagonista: “ Nonna conobbe il Reduce nell’autunno del 1950. Arrivava da Cagliari per la prima volta in Continente. Doveva compiere quarant’anni, senza bambini perché su mali de is perdas glieli faceva sempre abortire nei primi mesi. Allora (…) fu mandata alle Terme per curarsi”

Di lei non viene dato il nome, è semplicemente indicata come “ la nonna”; la nipote ne racconta la storia come l’ha ascoltata da lei finché è stata in vita. Allora si guarda ogni cosa con gli occhi della nonna, figura sospesa sopra il reale, che osserva tutto con stupore e con la capacità di un artista di trasformare in bellezza anche lo squallore. Questo punto di vista viene straniato, alla fine del romanzo, alla morte della nonna, quando viene presentata al lettore la versione delle prozie per le quali la nonna è sempre rimasta “ sa macca “. Ne consegue un continuo affiorare del senso del contrario che crea un pathos non privo di umorismo. Nemmeno degli altri personaggi è dato il nome, abbiamo così il nonno, il Reduce, la zia, la bisnonna ecc. e di questa privazione non si sente la mancanza, perché proprio le relazioni parentali, soprattutto in linea femminile, e gli affetti che le dovrebbero legare, danno un senso particolare alle vicende narrate.

I 20 capitoletti del romanzo si susseguono snelli, mescolando piani temporali diversi, come se la nipote-narratrice raccogliesse ricordi, frammenti, emozioni e li ricomponesse per darci una storia lineare che ricostruisce le due immagini della amatissima nonna: quella che è stata per lei, per il figlio, per la nuora e quella che avrebbe voluto essere. Io sono nata che mia nonna aveva più di sessant’anni. Mi ricordo che da piccola la trovavo bellissima e stavo sempre incantata a vedere quando si pettinava e si faceva sa crocchia all’antica, con le trecce di capelli che non sono mai diventati bianchi né radi e che partivano dalla discriminatura in mezzo per poi essere raccolti in due chignon. Ero orgogliosa quando veniva a prendermi a scuola con quel suo sorriso giovane fra le mamme e i padri degli altri, perché i miei, essendo musici cisti, erano sempre in giro per il mondo.( pag.43 )

Dall’inizio della storia alla contemporaneità, si attraversano vari decenni con allo sfondo molti riferimenti ad eventi di rilievo della grande Storia: la guerra, i bombardamenti americani del 1943 su Cagliari, i bollettini di Radio Londra; un sessantennio, all’incirca, che, dalla seconda guerra mondiale ai tempi nostri, vede le trasformazioni spesso inconsulte della Sardegna agro-pastorale, come la cementificazione irragionevole delle coste in ossequio al turismo, l’industrializzazione, l’emigrazione e il degrado ambientale. La vicenda si svolge per gran parte in una Cagliari piena di sole, di azzurro e di vento, a Gavoi, paese bellissimo in montagna con i cortili pieni di ortensie, ed una breve parentesi che racconta di un viaggio a Milano.

La nonna, giovane bella, sensuale, appassionata, sin da ragazzina esterna un carattere e dei comportamenti bizzarri che la famiglia e l’ambiente in cui vive, la Sardegna anteguerra, non riescono ad accettare. La sua ansia di libertà, le storie che ama inventare e annotare di nascosto, la ricerca spasmodica di amore, che, invece, tutti le rifiutano sono interpretate come stravaganze, come peccato e macchie di cui vergognarsi. Allora è meglio farla passare per matta, attribuire alla fatalità della malattia mentale ogni gesto sconveniente, ogni espressione di emozione e di desiderio che la giovane dimostra. La famiglia tutta l’ha bollata sino a giungere alla decisione di internarla in un manicomio; la madre in primis cerca con le punizioni corporali, con la violenza di ricondurla alla “ retta via”: Un giorno la mia bisnonna l’aspettò nel cortile con la zironia, che era un nerbo di bue, e iniziò a colpirla sino a farle venire le piaghe persino sulla testa e la febbre alta. (…..) E continuava a colpirla, a colpirla e a urlarle. “ Dimonia ! dimonia! ( pagg. 11-12 ). Insomma la trattava sempre come non fosse sangue del suo sangue”; per la madre era solo matta schietta che tiene una testa piena di vento “ ( pag 11 ). La sua ossessione dell’annotare tutto, dello scrivere come sfogo, chi mai poi avrebbe potuto accettarlo e capirlo in quella famiglia? Era cosa da tenere segreta e così sarà per tutta la vita: Ormai lei aveva imparato a leggere e a scrivere ed era tutta una vita che scriveva di nascosto…poesie…Forse pensieri. Cose che le succedevano, ma un po’ inventate. Non lo doveva sapere nessuno perché magari la prendevano per matta (…)

Così a questa giovane, che brama comunicare, ma che nessuno ascolta e comprende, convinta di essere tutta sbagliata, non rimane che autopunirsi, colpevolizzarsi e martoriare il suo corpo, strapparsi i bellissimi capelli e arrivare a tentare il suicidio buttandosi nel pozzo. Nessuno al paese l’avrebbe mai sposata e questo preoccupa non poco la famiglia; i presunti pretendenti, che in qualche modo le trovano, scappano e illudono la povera ragazza con ingannevoli appuntamenti e resta in lei l’attesa e l’ansia devastante dell’amore, quella che lei chiamerà sempre “ la cosa principale.

Nel 1943 arriva però un uomo, libertario, comunista, che un bombardamento ha privato della moglie e della casa, che chiede la sua mano; alla famiglia della nonna che lo accoglie in casa non sembra vero e nel giro di un mese, nonostante l’opposizione della ragazza, si giunge alle nozze che per un anno lei si rifiuta di consumare. “ Nel letto alto la notte nonna si rannicchiava il più lontano possibile da lui tanto che cadeva spesso per terra e quando nelle notti di luna dagli scurini delle porte che davano sulla lolla penetrava la luce e illuminava la schiena di suo marito, lei ne aveva quasi spavento, di questo estraneo forestiero che non sapeva se fosse bello o no tanto non lo guardava e tanto lui non la guardava.”( pag. 16-17 )

Poi, invece, arriva improvvisa la accettazione rassegnata e la decisione di assecondare tutte le fantasie erotiche del marito, assiduo frequentatore delle case chiuse. Non poteva esserci partenza più stravagante per un matrimonio che pure nella realtà durerà vari decenni, durante i quali i due sposi si impegnano con dedizione e tenerezze reciproche a tenere in piedi la famiglia, specie dopo la nascita del loro amatissimo figlio. Tra i due rimarrà sempre un velo di incomunicabilità; un rapporto fatto di silenzi, di buon senso. Senza scintille e senza calore, perchè l’amore per la nonna è un’altra cosa: “E nonna sempre si chiedeva come è strano l’amore , che se non vuole arrivare non arriva con il letto e neppure con la gentilezza e le buone azioni ed era strano che proprio quella, che era la cosa più importante, non ci fosse verso di farla venire in nessun modo “ ( pag. 26 ).

L’amore, quello vero, che le da la forza di cominciare a vivere, e la pace e la salute lo trova grazie al Reduce incontrato durante il soggiorno alle Terme dove era andata per curare i suoi calcoli renali, causa forse delle continue gravidanze interrotte. La magia di quel soggiorno è abilmente sottolineata dall’autrice dalla persistenza della nebbia che avvolge cose e ambienti di questa imprecisata località termale, creando un’ atmosfera di vaghezza. Il Reduce è bello, elegante, colto e l’affascina nelle lunghe giornate di cura parlandole di arte, musica, poesia. Soprattutto è capace di ascoltare le fantasie, le paure che animano la mente della giovane sarda e la fa uscire dalla pesante coltre del silenzio, incoraggiandola ad assecondare il bisogno di appuntare tutto nel quadernino nero dai bordi rossi che lei porta sempre con sé. E’ la prima persona che l’accetta per quello che è; e questo basta per fare del Reduce l’incarnazione dell’amore sognato, dell’uomo con cui svelarsi, condividere tutta la carica emotiva, sensuale che ha dentro. E’ una sorta di epifania dell’amore: “ per tutta la vita le avevano detto che sembrava una del paese della luna, le sembrò di aver incontrato, finalmente, uno di quello stesso paese” ( pag. 87 ). Con lui la nonna stringe un legame così intenso, fatto di segreti, di intime confidenze che vorrà donargli il proprio quadernetto dei segreti come regalo d’addio, alla fine del soggiorno. “Il quadernetto lo aveva regalato al Reduce, perché ormai non avrebbe più avuto tempo per la scrittura. Bisognava cominciare a vivere. Perchè il Reduce fu un attimo e la vita di nonna tante altre cose “. ( pag.88)

Così la nonna torna nella sua Cagliari per essere moglie fedele, ma mai felice; madre attenta, gran lavoratrice, di nascosto, per poter comprare un pianoforte e consentire al figlio di coltivare la grande passione per la musica, suocera e nonna amatissima. Il ricordo del grande amore per il Reduce, tuttavia, oscurerà con un’ombra di malinconia e nostalgia la sua vita reale, impedendole di godere a pieno delle tante gioie concrete che il destino le riserverà negli anni a venire, eppure per una sorta di magico dantesco effetto moltiplicatore, come se l’amore fosse inevitabilmente fonte di altro amore, saprà suscitarlo anche in chi le starà accanto. La nonna, con il suo sguardo acutissimo sulla vita, dice spesso che “ la nostalgia è una cosa triste, ma anche un po’ felice “ ( pag 94), perché il ricordo di una illuminazione vissuta, anche se perduta, è sempre meglio della assenza, della privazione.

Della sua incapacità di godere del presente reale, la nonna, negli anni, spesso si rammarica con la nipote. Diventa sempre più consapevole di essere stata amata dall’uomo buono e generoso che le avevano fatto sposare, e che in tante occasioni glielo ha dimostrato, ma lei non vedeva, non capiva, era distratta dal suo tarlo interno, dalla sua idea di amore incarnata dal Reduce, per cui tutto quello che il marito le offriva era, al confronto, sempre insoddisfacente, di meno. Non che lei al marito non volesse bene, anzi le dispiaceva non essere riuscita ad amarlo,“le dispiaceva tantissimo e si chiedeva il perché Dio, nell’amore, che è la cosa principale, organizzasse le cose in modo così assurdo”. Al contempo però si autoassolve, si da una giustificazione:

“ Quando nonna si accorse di essere ormai vecchia mi diceva che aveva paura di morire. Non per la morte in sé, che doveva essere come andare a dormire o fare un viaggio, ma sapeva che Dio con lei era offeso, perché le aveva dato tante cose belle in questo mondo e lei non era riuscita a essere felice e questo, Dio, non poteva averglielo perdonato. In fondo sperava di essere matta davvero, da sana l’Inferno era sicuro. Però con Dio avrebbe discusso, prima di andare all’Inferno. Gli avrebbe fatto notare che se Lui crea una persona in un certo modo poi non può pretendere che agisca come se non fosse lei. Aveva speso tutte le sue forze per convincersi che quella era la migliore vita possibile, e non quell’altra di cui la nostalgia e il desiderio le toglievano il respiro”( pag. 78 ).

Solo nel finale, con una rivelazione del tutto inaspettata e geniale, ci si svela il senso del romanzo, e rimaniamo esterrefatti; pensavamo noi lettori di aver seguito la ricostruzione di una vita, con i suoi eventi, i suoi tempi e spazi. In realtà, spiazzati e spaesati, ci rendiamo conto attraverso una lettera del Reduce che accompagnava la restituzione del famoso quadernino nero dai bordi rossi, il tutto ritrovato nascosto in una nicchia nella casa della nonna che la nipote sta ristrutturando, che il romanzo impone una nuova chiave di lettura. Ora si scopre che tutto era stato inventato; tra loro non era nata nessuna storia d’amore; sicuramente lei si era innamorata perdutamente dei modi raffinati del Reduce e, soprattutto, era stata ammaliata dell’interesse che aveva mostrato per le sue aspirazioni letterarie e dalle parole con cui la incitava a coltivare il suo amore per la poesia: “ Non smetta di immaginare. Non è matta. Mai più creda a chi le dice questa cosa ingiusta e malvagia. Scriva”

Questo romanzo è una evidente celebrazione del valore salvifico, quasi taumaturgico, della scrittura, capace di suscitare in una persona passioni ed energia vitale. Inventarsi una vita che ci piace, immaginarla e crederci a tal punto da renderla reale forse è l’unica soluzione possibile per togliere peso, alleviare il grigiore della realtà. La scrittura rende possibile tutto questo, consentendo altresì di evadere da quella sorta di carcere in cui ci si sente ingabbiati; pur tenendo presente che, essendo al contempo un atto di ribellione, può anche essere motivo di ulteriore stigmatizzazione. “Scrivere è la tana che mi porto sempre dentro. Quando mi immagino dentro una situazione o in un posto di disagio, o in preda a una crisi di panico, penso che però potrei sempre tirar fuori il mio quaderno di appunti e rintanarmi nell’altro mondo, e là starci bene”, così Milena Agus spiega il senso della scrittura. In effetti lo scrivere è certamente terapeutico per le più svariate malattie dell’animo; ci permette di interpretare la realtà, di costruire significati e mondi possibili e alternativi nei quali ri-cominciare ad esistere e ad agire. La scrittura è un percorso verso la propria storia che, attraverso introspezione e intimità, da forma e senso a una cultura di sé, a uno spazio e a un tempo solo nostri.

Più in generale potremmo anche dire che il romanzo esalta il valore della vocazione personale coltivata con tenacia, contro ogni parere contrario, battaglia sempre più difficile perché le vocazioni sono troppo spesso sacrificate, purtroppo anche nei modelli formativi-professionali dei nostri giovani, dai criteri utilitaristici dominanti. E questo a me sembra un gran bel messaggio.

Nei lavori della scrittrice sarda il mondo femminile ha sicuramente un grande spazio; mai però è indagato in chiave ideologica; la lotta tra l’essere, il dover essere e l’apparire, lo scontro tra la spinta alla ribellione verso le gabbie dei conformismi culturali e sociali e il freno della paura, della solitudine, dell’isolamento, della rinuncia, fanno dell’animo femminile un grumo di emozioni e sentimenti estremamente affascinante per la scrittrice. E’ convinta che l’approccio più autentico con la vita e con la storia sia proprio quello emotivo; le emozioni, che partono da odori, sapori, gesti, visioni ora belle ora forti o violente, sin da bambini ci parlano di altro, di una realtà superiore, di una storia più grande di quella che conosciamo, di un mistero, di Dio. Nei romanzi della Agus anche la grande Storia, attraverso questa mappa di emozioni personali, entra nel vissuto dei personaggi. Il controllo, la razionalizzazione di tutto, che pure guidano tante vite giuste non bastano, sembra dirci la Agus, anzi quando sono scelte per paura di soffrire, congelano e ammalano. Così accade nel romanzo a nonna Lia: “ La mia nonna materna, per esempio, la signora Lia, non era cattiva. Aveva cercato di mettere ordine a tutti i costi nella propria vita, senza riuscirci e facendo danni peggiori”; non è dunque una buona idea, è ben più salutare seguire un’altra via secondo cui … “non bisogna mettere ordine nelle cose, ma assecondare il casino universale e suonarci sopra” (pag.109 )

Una riflessione merita, infine, lo stile della Agus; la sua prosa è asciutta, a volte elementare, ma sorprendente per la capacità di accostare in modo sofisticato parole semplici, riempiendole di significato ed evocando cose universali che risvegliano emozioni profonde. Nel suo italiano lineare inserisce termini in sardo, suggeriti dalla necessità di maggiore adesione sia alla geografia dei luoghi sia alla specificità di alcuni tratti del carattere sardo: la solitudine, un certo isolamento, l’essere riservato e pudico degli isolani. Questo intreccio linguistico con i lessemi, le strutture sintattiche del sardo, che accomuna un po’ tutti gli scrittori sardi contemporanei, è indicativo di un riferimento ad una specifica matrice culturale, una semiosfera ancestrale che non riesce a coincidere del tutto col sistema linguistico prevalente. Questa identità è, e perciò diventa, anche linguaggio; le parole in sardo, che alcuni hanno criticato come orpello di una visione quasi feticistica della Sardegna, lungi da tutto questo, specie nella Agus, in realtà ci restituiscono la durezza e la poesia di una parlata antica, aspra, pastorale come quella sarda. La scrittura della Agus, cioè lo stile, quel quid che differenzia e sostanzia la specificità di un artista, attraverso un raffinato lavorio letterario sulla parola, sulla sintassi e su tutto l’armamentario della comunicazione, riconferma la convinzione, che la scrittrice sarda ci declina in mille modi nei suoi romanzi, che la dimensione emotiva-cognitiva dell’esistere segna la storia degli individui.

Franca Del Pozzo

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