Ho provato a entrare nel mondo letterario di Jon Fosse, probabilmente per una porta laterale. Questo romanzo breve o racconto lungo dal titolo Mattino e sera mi sembrava interessante: una nascita e una morte viste come le due parti più incredibili e normali (incredibilmente normali) dell’esistenza, raccontate da un padre che assiste alla nascita del figlio maschio, e (credo, perché ha lo stesso nome e fa lo stesso mestiere del padre, il pescatore) il figlio diventato anziano sul punto di lasciare il mondo. Idea interessante. Poteva essere interessante anche l’intuizione di far percepire una distanza di mentalità tra l’ambiente in cui si nasce e quello in cui si muore: infatti, sebbene lentamente, le mentalità cambiano.

Jon Fosse, premio Nobel quest’anno, sceglie una prosa poetica, persino svincolata da un’eccessiva punteggiatura, tanto che il discorso indiretto sembra un movimento della risacca e quello diretto il movimento opposto: un avvicinarsi e allontanarsi, un osservare e uno stare in scena. Una buona pensata, ci ricorda il nostro Giovanni Verga: perché? Perché, per descrivere un ambiente popolare lontano nel tempo, Jon Fosse immagina quello che potevano pensare i suoi personaggi: il filtro della religiosità popolare, ricco di invenzioni personali e di superstizioni, e di conseguenza un bel po’ di robusta retorica. Va bene, come lettore accetto di entrare nella mente di Olai, il padre del nascituro Johannes, ma la prosa mi disturba, le ripetizioni che dovrebbero suggerire musicalità sono stonate, alla fine diventano involontariamente parodiche.

“Adesso devi avere pazienza, dice la vecchia levatrice Anna

Se sarà maschio, si chiamerà Johannes, dice Olai

Vedremo, dice la levatrice Anna

Johannes, sì, dice Olai

Come mio padre, sì, dice

Non c’è niente di male in questo nome, dice la vecchia levatrice Anna…”

E così via, per 32 pagine. Suona falso, è un falsetto che disturba e dice cose che si potrebbero riassumere in due paginette. Molto più ampia, un centinaio di pagine, è la seconda parte. Ma un lettore normale, del ventunesimo secolo, italiano, arranca: queste cose le ha già lette a scuola. I Malavoglia (1881) oppure, da queste parti, Maria risorta. Romanzo marinaresco di Giulio Grimaldi (1908). C’è qualcosa di più in questa operetta minore di Jon Fosse? A me non sembra. Anzi, c’è molto meno. E in più c’è questo stillicidio di dialoghi ripetuti, cadenzati (una musica noiosissima), e totalmente inutili (utili solo a riempire pagine e pagine fino ad arrivare ad un numero congruo per un romanzo breve). Se sostituissimo i nomi norvegesi di luogo e di persona con nomi italiani, nessun lettore italiano leggerebbe questo libro senza una solleticante esilarante ironia. Fuori luogo, d’accordo, ma succede quando si preme eccessivamente il pedale del poetichese.

Non so che dire. Proverò a leggere i libri più celebrati.

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