Marcello Diotallevi è l’autore di un libro di poesie dal titolo Irrefutable verses, credo che questo di possa affermare con certezza. Testi in italiano con traduzione inglese di Milli De Palma e una perfetta introduzione di Janus (Roberto Gianoglio). Un’altra cosa certa è che la sua vita è dedicata all’arte, arte che mi è capitato alcune volte di apprezzare per l’ironia cruda e per la crudezza ironica che quasi sempre costituisce la sua insegna, come per gli antichi tipografi il marchio editoriale. Lui più esattamente la definisce malincomica. Non mi soffermo sull’editore, Mr. Wabe, Bird of paradise publisher, che pare uscito da un manuale di antropologia (o di antropofagia, secondo le affermazioni dell’autore, affermazioni che incautamente non ho registrato né appuntato, in un freddo pomeriggio di marzo del 2022, nella cucina della sua abitazione, mentre Marcello, tagliando i suoi sigari toscani, che da circa mezzo secolo, insieme all’eros, soddisfano il suo piacere della vita, cercava di presentarmi il suo libro). Mi ha raccontato che è nato a Fano per caso e che ha vissuto infanzia e gioventù a Roma, poi è tornato. Per quello che ne so, il suo aplomb arguto ha calcato da decenni le scene fanesi, ma lui si considera romano e un po’ anche parigino, poi con la mail art uno diventa cittadino del mondo. Mr. Wabe ne sa qualcosa. Tuttavia solo in questo giorno di marzo, mentre lui parla, capisco che quello che conta per lui è soprattutto l’angolazione da cui guardare le cose. L’angolazione, il punto di vista, che per chi pratica la poesia visiva (e la mail art) è fondamentale, tanto da cancellarne le tracce: come se esistesse solo il sigaro, acceso o spento, che fuma o sfuma come il sorriso del gatto dello Cheshire, e certo il sorriso sardonico di Marcello non è diverso, infatti ben presto, dopo un’arguzia, scompare, per il ritorno della sua maschera inconfutabile. Mi accorgo che citare Lewis Carroll non è un caso. Inoltre c’è sempre qualcosa di letterario nel suo modo o meglio nei suoi modi di fare arte e il più delle volte non è facile né utile distinguere tra arte e letteratura.
Tutte le brillanti intuizioni di Janus, nella nota introduttiva, mi sembrano da sottoscrivere, tranne l’affermazione su Eraclito, cioè che è una fortuna che ci siano rimasti pochi frammenti della sua opera. Sappiamo grosso modo come sono andate le cose. Per me è un vero peccato. Non è solo il tempo che si è accanito sulle opere di Eraclito e in generale sulle culture che hanno preceduto il Cristianesimo. Il fanatismo del Cristianesimo primitivo non si è limitato alla notte dei cristalli: ha bruciato e distrutto quasi tutta la cultura classica, o pagana. Ma questo è un dettaglio, che comunque lui conosce bene, vedi le poesie su Lilith e Ipazia. Un dettaglio forse non casuale, dopo la lettura di alcune poesie sui Papi e sulla Bibbia, il cui punto di vista (inconfutabile) non è propriamente da vaticanista.
Dove agisce Marcello per denudare la società? Non tanto sul terreno dell’economia e della politica, ma su quello del sesso, dove può agevolmente ed esplicitamente guardare dietro le apparenze, e non quelle facili, bigotte, ma dietro quelle che per tradizione colpevolizzano il piacere e sono gesuiticamente articolate (con articoli di fede convenzionali). Così le sue narrazioni in versi, retrospettive e attuali, colpiscono sacro e profano, o infilzano, come fa un entomologo con le farfalle.
Il piacere del sesso e di un sigaro toscano contro il filisteismo, che purtroppo è inaffondabile, come la stupidità. Un contrasto medievale, ma per voce sola. Tutto il resto è superfluo, o quasi. Un moralista scettico, lo definisce Janus.
Se bastasse l’anarchia per entrare in uno spazio privo di inibizioni, soprattutto sessuali, visto che la società, dal Cristianesimo in poi, si accanisce soprattutto su quelle o le tollera ipocritamente, non sarebbe un po’ troppo facile? Non diventerebbe uno spazio piuttosto noioso? Infatti l’originalità di Marcello Diotallevi sta appunto nel restare dentro pur decentrandosi. Il suo angolo visuale è inatteso, sorprende, ma non è inattendibile, anzi il più delle volte è condivisibile. Ma dove si vede che resta dentro? Nella lingua. Usa una retorica razionale, appuntita, arguta, con sorprendenti giochi di parole e di concetti, alcuni da applauso convinto, però la selezione linguistica è professorale, culturalmente salottiera. Magari proviene da quei salotti parigini descritti da Proust, sapientemente aggiornati dalla tradizione della satira latina, per esempio un Giovenale, magari tradotto da Guido Ceronetti (senza la sua acribia apocalittica) o un classico in dialetto romanesco, Gioachino Belli, ma qui la differenza si percepisce subito: la lingua, cioè il dialetto, era il vero punto di vista del poeta romano. Marcello usa invece una lingua colloquiale che assorbe citazioni dotte, e una sintassi nitida, illuministica, dalle quali trapela un aggiornamento continuo anche di materie scientifiche, insomma la maschera è quella di un professore ironico e auto-ironico, che tiene molto alla sua eccentricità e alla sua inconfutabilità: altrimenti che maschera sarebbe? Appunto per questo, però, deve esserci qualcun altro dietro la sua biografia depistante e allusiva, se non elusiva. Ma non sono uno psicologo né uno psicanalista né credo che sia interessante questo aspetto. Sono un lettore e accetto e apprezzo il suo mondo comunicante, compreso Mr. Wabe. Viaggio tra le sue memorie restaurate ed è un viaggio che consiglio.