15 luglio 2020

Prima di partire avevo controllato il percorso su ViaMichelin, ma, giunto a Montegaudio, la strada che dovevo imboccare era interrotta da lavori in corso. Chiedo ad un operaio, «Ma lei dove deve andare?», non gli rivelo che sto cercando i ruderi di una chiesa, gli dico il nome di una country house vicina, l’unica struttura presente nella collina boscosa di Coldelce. «Deve superare il paese e prendere la strada imbrecciata nel curvone».

La imbocco ma è ormai saltato il percorso che avevo memorizzato in un territorio che non conosco. Mi fermo ad un bivio, un cartello artigianale indica che, anziché da lì, per raggiungere la country house – che si trova nei pressi del rudere della chiesa – bisogna passare per Cappone (una frazione di Vallefoglia posta nella vallata). La logica suggerisce di seguire il consiglio del cartello, ma io, cocciuto, non voglio arrivarci comodamente, quelle rovine me le voglio guadagnare a piedi. Lasciata l’auto, senza certezze, io e mia moglie percorriamo quella strada bianca.

La strada prima lambisce dei campi poi solo il bosco. Man mano che avanziamo il fondo stradale peggiora. Ad un bivio, all’unica persona che incontriamo, chiedo informazioni; è senza fucile – la caccia è chiusa – ma ha il vestiario e, soprattutto, il cane da cacciatore. «Il rudere della chiesa di Sant’Eracliano è vicino?». «È a un chilometro e mezzo»; mi indica la strada, «ma poteva arrivarci in auto passando per Cappone» aggiunge, «si poteva venire anche da questa”, e indica la strada da cui provengo, «ma occorre avere l’auto adatta».

Proseguiamo sulla strada che attraversa il bosco. A casa, consultando Google Maps, avevo visto che il rudere non si trova sulla strada principale ma su una stradina secondaria sulla destra; di tanto in tanto ai lati vi sono stradine secondarie, ma qual è quella giusta?

“Un chilometro e mezzo si percorre a piedi in un quarto d’ora” è il pensiero che mi spinge ad imboccare, dopo altri 15 minuti di cammino, una stradina inerbita, quasi chiusa dai rami. Poche centinaia di metri e il bosco si apre, vedo spuntare un campanile, è in rovina, ha profonde crepe, rimane solo una parte della cupola, poi appare l’intera pieve, con la parete esterna dell’abside semicircolare. La chiesa è ridotta ad un rudere ma è imponente; mi sembra inspiegabile la presenza di un edificio religioso di tali dimensioni in mezzo a questo bosco dove abbiamo camminato per chilometri senza incontrare abitazioni.

La pieve conserva il fascino delle cose antiche, che il tempo ha dimenticato ma non cancellato.

La facciata è intatta ma senza porta. Non c’è più il tetto, il materiale che lo costituiva ora ingombra il pavimento. Dell’altare principale e di quelli secondari poveri resti. Della pittura azzurra, che richiamava il cielo, non è rimasto quasi nulla; qua e là, nei punti meno esposti all’acqua piovana e al sole, qualche chiazza di un azzurro pallido. Ci sono cenni di disegni nella nicchia che accoglieva l’acquasantiera.

Affacciandomi alla cappella del cimitero addossata al corpo del tempio, vedo le fosse sepolcrali esposte.

Mi affaccio pure sulla canonica (attaccata alla chiesa sull’altro lato). Accanto alla sagrestia vi era la cucina, ma del camino che doveva renderla calda e accogliente resta solo la traccia nel muro.

Le finestre della canonica al primo piano sono ancora murate per difendere l’edificio dai vandali, ma quelle tamponature non hanno potuto bloccare il peggiore dei vandali: il tempo.

A spingermi a visitare il rudere è stato un libro, presente nella libreria del mio studio da decenni ma che ero tornato a sfogliare nei giorni scorsi: “Castelli sospesi tra sogno e memoria Coldelce, Genga, Monteviole-Serra di Genga, Ripe” (di Leonardo Moretti, Provincia di Pesaro e Urbino e Comune di Colbordolo, dicembre 1993).

L’autore nella premessa scrive: “Alternati ai boschi, terreni coperti di bionde ginestre e rovi, creano un’immagine di perenne immobilità, dove le poche e disabitate case non bastano a richiamare alla mente gli abitanti di un tempo, con le loro gioie ed i loro affanni. Tutto sembra incontaminato, immobile, nella sua selvaggia bellezza, da sempre. Eppure la grande ed elegante pieve, anche se in decadenza, evoca tempi ben diversi: di civiltà antiche, di vita. Questo particolare isolamento di una così maestosa chiesa, mi ha prima incuriosito e poi spinto ad una lunga ricerca …”

Leonardo Moretti, archivista – scomparso nel 2009 –, aveva scovato i primi documenti in cui si faceva cenno alla Pieve di Sant’Eracliano di Coldelce; risalgono all’anno 1069, anche se l’edificio in questione era stato costruito nel 1840 a breve distanza dalla vecchia pieve medievale.

Il declino demografico – nel XVI secolo a Coldelce abitavano 350 persone – intorno agli anni ‘50 e ‘60 del ‘900 si trasformò in una totale fuga dalle campagne rendendo la zona quasi disabitata.

Nel 1965, in seguito alla morte dell’ultimo parroco, la chiesa: “fu meta di gente senza scrupoli: esaltati che che devastarono le fosse sepolcrali, ladri sacrileghi e distruttori. … Intorno agli anni ottanta, le Autorità Ecclesiastiche, non potendo sopperire agli oneri della manutenzione e per essere ridotta la parrocchia a poche unità di persone, alienò lo stabile a dei privati”.

L’autore ricorda il suo primo incontro con la chiesa: “Vidi per la prima volta la Pieve di S.Eracliano nel 1972. La prima sensazione fu di stupore e di ammirazione, perché mai mi sarei immaginato di vedere un edificio così imponente ed armonioso in un luogo tanto solitario. … non potrò dimenticare la sensazione che ebbi quando scostando il portone socchiuso varcai l’ingresso e mi accorsi che il tempio era stato trasformato in ricovero per le pecore”.

Il libro riporta le riflessioni del sacerdote Ezio Feduzi nativo del posto (era nato nel 1928):

Quella chiesa solitaria e maestosa mi aveva sempre affascinato per la sua sobrietà e per il suo silenzio.

L’avevo lasciata ancora piccolo, di pochi anni, ma ricordavo benissimo la fontana con la sua acqua fresca e limpida che ci dissetava prima e dopo la Messa, le grosse noci con le quali noi piccoli ci riempivamo le tasche, il melograno, le ciliege, le more nere molto dolci  che mamma raccoglieva durante il viaggio di ritorno dalla Messa per fare la marmellata, il prete che ci aspettava sulla porta della chiesa per salutarci, il nostro entrare in punta di piedi assieme ai genitori col vestito che profumava di naftalina per ascoltare la messa celebrata in latino senza comprendere nulla, ma così solenne che sembrava usasse il linguaggio del cielo. … L’altare era pieno di candelieri sopra i quali c’erano lunghe candele accese e tra ogni candela un vaso di fiori.

Nei decenni successivi il sacerdote era tornato a fare visita alla chiesa; l’edificio era stato nel frattempo venduto a privati: “… La chiesa era lì <monumento inutile> in mezzo a un bosco selvaggio per nulla affascinante, con le porte e le finestre murate fino al secondo piano per paura che nuovi vandali, i quali già avevano finito per spogliarla di quel poco che le era rimasto, non la profanassero con le loro scempiaggini. … Questa chiesa, un tempo tra le più belle della diocesi, sta morendo e non vi sarà più una popolazione che la ricostruirà come ci fu per più di mille anni.

 

Anche il sacerdote Ezio Feduzi è scomparso, all’età di 90 anni, le immagini della Pieve di Sant’Eracliano addobbata per la Messa, fissate nella sua memoria fin da bambino, se ne sono andate con lui. Le preghiere dei fedeli e il rintocco della campana sono stati sostituiti dal silenzio. Ora, al posto dei candelieri e dei vasi di fiori, sui resti dell’altare principale cresce una pianta di Ailanto.

 

Didascalie foto:

da 1 a 5 – Le rovine della Pieve di Sant’Eracliano a Coldelce (Comune di Vallefoglia – PU)

6 – Copertina di “Castelli sospesi tra sogno e memoria Coldelce, Genga, Monteviole-Serra di Genga, Ripe

7 – L’abside della chiesa con i resti dell’altare principale

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