“L’arte di collezionare mosche” [Iperborea, 2015], scritto dallo scrittore-collezionista svedese, Fredrik Sjöberg, non è un romanzo, né un saggio scientifico. L’Autore, tra continue divagazioni, racconta la sua passione per le mosche, anzi per i sirfidi – una particolare famiglia di mosche che, per sfuggire alla cattura degli uccelli, si travestono da imenotteri – e trasporta il lettore nello strano mondo degli entomologi.
Lo scrittore nordico colleziona solamente i sirfidi di Runmarö, la piccola isoletta nell’arcipelago di Stoccolma in cui si è ritirato a vivere; dopo avere compiuto viaggi in luoghi lontani, ha deciso di limitare l’esplorazione ai 15 chilometri quadrati della sua isola – ne ha catalogate 202 specie.
Pur amando la natura, Sjöberg ha opinioni capaci di scandalizzare il mondo ambientalista; anziché battersi per la difesa delle foreste tropicali, è convinto che in Africa servirebbe qualche autostrada e cartiera in più.
“La foresta tropicale è al suo meglio in televisione. Certo, può succedere che la giungla sia bella e piacevole anche vista da vicino, nella vita reale, ma credetemi: di solito si presenta come un’orgia disgustosa in cui tutto punge e morde, e i vestiti si incollano al corpo come pellicole di plastica. Il sole non lo si vede nemmeno, perché la fitta vegetazione si inarca a volta, come un umido soffitto di cantina, sopra il sentiero trasformato dagli acquazzoni in un rigagnolo scivoloso dove soltanto le sanguisughe si trovano a loro agio. Le zanzare portatrici di malaria sferrano i loro attacchi e il solo pensiero del morso dei serpenti, delle gambe rotte e della dissenteria fa sprofondare l’umore come un sasso nell’acqua, tanto più se la distanza dalla strada più vicina viene misurata in giornate di cammino, il che ai tropici avviene spesso, e di conseguenza i visitatori nordici, all’inizio così ostinatamente assetati di avventura, se ne stanno ora lì al buio, sul terreno fradicio e marcio della foresta tropicale, scoraggiati, disperati […] Portatemi via di qui. Datemi una birra”.
Gli aneddoti autobiografici sono sapientemente mescolati a disquisizioni filosofiche, ad esempio sul perché alcune persone si dedicano al collezionismo di opere d’arte, di reperti naturali, di oggetti futili – che definisce “bottonologia”-, e a vicende riguardanti scienziati, viaggiatori e altri uomini (e donne) di cultura, per lo più svedesi, che hanno avuto a che fare con il collezionismo o con la sua isola.
Piuttosto che su quella di Linneo, l’Autore preferisce soffermarsi sulla biografia di Renè Malaise (1892-1978), studioso svedese di una particolare varietà di mosche, esploratore nelle estreme terre orientali (trascorse molti anni nella fredda penisola della Kamčatka), inventore di una trappola entomologica ancor oggi utilizzata, sostenitore dell’esistenza della mitica Atlantide ed infine collezionista di opere d’arte. Malaise fa la sua comparsa di tanto in tanto nel corso della lettura e acquista via via sempre più importanza. Viene raccontata pure la vita della sua prima moglie, l’anticonformista giornalista Ester Blenda Nordström.
Il rigore scientifico con cui lo scrittore nordico affronta il tema del collezionismo e si documenta sulla vita di naturalisti suoi conterranei va di pari passo con l’umorismo (e l’autoironia) che permea l’intero libro.
“Conosciamo tutti l’immagine stereotipata dell’entomologo: un povero pazzo che corre a perdifiato per campi e per prati inseguendo farfalle che fuggono. Anche a prescindere dal fatto che l’immagine non corrisponde del tutto al vero in generale, posso comunque assicurare che non corrisponde per niente al vero per quanto riguarda i collezionisti di sirfidi. Noi siamo gente tranquilla, con una tendenza alla contemplazione e un modo di muoverci sul terreno piuttosto aristocratico. Non che correre sia incompatibile con la nostra dignità, ma sarebbe comunque inutile, visto che le mosche sono troppo veloci. Perciò ce ne stiamo fermi, in agguato, e oltretutto esclusivamente in luoghi battuti dal sole, sottovento e pieni di fiori odorosi. Chi ci passa accanto può facilmente avere l’impressione che il cacciatore di mosche sia una specie di convalescente, al momento immerso in una qualche forma di meditazione. E non ha tutti i torti.
[…]
Sulla terra esistono milioni e milioni di specie di insetti. Di queste centinaia di migliaia appartengono al multiforme ordine delle mosche, i ditteri. […] tra tutte queste famiglie di mosche, tra loro piuttosto diverse, io mi interesso esclusivamente ai sirfidi. Ma anche loro sono troppo numerosi per acquisirne una conoscenza che non sia solo superficiale nel corso di una vita. […] Per questo raccolgo mosche solo sull’isola. Mai sulla terraferma. […] Forse, quando sarò vecchio, condurrò i miei studi sulle mosche esclusivamente in giardino, seduto al sole accanto alla spirea e alla budleja come un califfo, con la canna dell’aspiratore in bocca come fosse una pipa d’oppio.
Non fraintendetemi, parliamo di caccia condotta per proprio piacere, nient’altro. Certo, potrei citare una quantità di ottime e sensate ragioni per cui è necessario collezionare mosche. Ragioni scientifiche e di politica ambientale. E forse in seguito lo farò anche, ma sarebbe ipocrita non cominciare dal puro piacere. […] Forse è la solitudine che ci induce a inventarci delle ragioni che gli altri possano capire. Se dicessi che colleziono sirfidi soprattutto per documentare i cambiamenti della fauna locale, chiunque mi capirebbe e addirittura apprezzerebbe quello che faccio. Ma sarebbe una menzogna”.
Libro originale e “leggero” – non è rivolto ad esperti della catalogazione naturalistica -, scritto con uno stile brillante, capace di offrire ore di piacere a chi ama opere al confine tra letteratura e scienza.