Gran parte della storia umana è perduta in modo irrimediabile. Eppure, riflettendo sui vari documenti che in qualche modo ci sono pervenuti, David Graeber e David Wengrow, cercano di ricostruire le radici storiche della disuguaglianza, uno dei problemi più gravi e più radicati del nostro tempo. L’opera nasce dalle ricerche e dalle discussioni dei due autori, che si sono confrontati per circa un decennio. Graeber (1961-2020), antropologo statunitense, oltre che insegnante alla London School of Economics è stato tra i promotori del movimento Occupy Wall Street ed è l’autore di Debito (Il saggiatore, 2012), un libro che ha rivoluzionato la teoria sociale ed economica. Wengrow (1972) insegna Archeologia comparata allo University College di Londra e ha compiuto, come Graeber in Madagascar, molte ricerche sul campo in Africa e Medio Oriente.
Che cosa rende unico questo libro? Qui viene raccontata una storia diversa da quella diffusa ormai da molto tempo e che segue una linea evolutiva delle società umane: dai piccoli gruppi di cacciatori-raccoglitori all’introduzione dell’agricoltura, che ha portato alla nascita della proprietà privata. Poi sono apparse le città, le organizzazioni gerarchiche e tutto quello che noi chiamiamo “civiltà”. La disuguaglianza sarebbe una tragica conseguenza di questo percorso e non può essere eliminata del tutto. Però la storia è più articolata e ricca di soluzioni diverse, ad esempio il mito del buon selvaggio di Rousseau è servito soltanto a dissimulare l’imbarazzante discussione avvenuta tra due civiltà profondamente diverse, quella degli indigeni uroni e irochesi e quella dei francesi in Canada, dove Kondiaronk, portavoce del consiglio delle tribù indigene, svolse il ruolo dello scettico razionale, demolendo con il ragionamento l’organizzazione politica degli occupanti in quanto società di schiavi e la religione cristiana perché poco credibile e incoerente. Queste relazioni si diffusero in Europa e influirono sulla nascita delle idee illuministe. In realtà nessuna società, come pare ovvio, può essere considerata perfetta, e i selvaggi non erano né selvaggi né perfetti. Però sperimentavano organizzazioni sociali ed economiche diverse, pur conoscendo l’agricoltura. Dunque non esiste un percorso già segnato e l’indagine di Graeber e Wengrow segue i documenti antropologici e archeologici per ricostruire le varie società, la loro vita e le loro relazioni quotidiane. Ne esce un quadro complessivo curiosamente molto intrigante, sorprendente, ricco di idee che la nostra cultura sclerotizzata e gerarchizzata – sedicente libertaria – non è neppure in grado di comprendere.
La civiltà occidentale ha davvero reso la vita migliore per tutti? Chi può stabilire se uno stile di vita sia più soddisfacente? Fin dai tempi di Adam Smith si cerca di dare per scontato che le forme contemporanee di mercato competitivo sono radicate nella natura umana, ma “quando tiriamo a indovinare cosa facessero gli esseri umani in altri luoghi ed epoche, facciamo supposizioni che sono molto meno interessanti, molto meno strambe – in una parola, molto meno umane – di ciò che probabilmente accadde”.
Questo libro sfugge alle supposizioni e cerca di basare le proprie descrizioni sui dati pervenuti. La storia e soprattutto LE STORIE, che vengono raccontate, fanno davvero riflettere, e certi concetti che noi diamo per acquisiti, emergono come approssimativi, se non inventati o imposti. Il mondo è stato più imprevedibile, stupefacente e inventivo, per quanto tragico. L’alba di tutto può insegnarci a guardarlo con uno sguardo meno “addomesticato” e può indurci a studiare opportunità diverse e a concepire concetti innovativi di giustizia sociale ed economica e libertà.