a Francesca
Ho letto sulle mura romane
SOFIA = TROIA.
Perlomeno
ha avuto la grazia di spruzzarlo
sul rifacimento settecentesco.
Eppure c’era stata anche qui la poesia,
attorno alla panchina
nascosta, riverniciata perché a un’antica gloria
rimandasse di marmi con poca spesa,
sul prato di trifoglio
selvatico, visitato
dalle scarpe da ginnastica,
da clandestine baruffe.
Inverno irradiava un freddo strano, ultraterreno.
Lei aveva aperto il libro al contrassegno, leggeva Baudelaire
in lingua originale, tirando lunghe boccate dalla Marlboro
rossa come le labbra.
“Et qui n’est pas saisi d’un frisson fraternel”.
La pronuncia così stupendamente non francese.
Poi aveva chiuso la pagina di scatto, mi aveva chiesto
se sapevo cos’era quel brivido del libro.
Il brivido azzurro lo chiamava,
come se la poesia fosse la sua.
Avevo detto che si, certo lo sapevo.
“E allora cos’è? Dimmelo!” Mi strattonava
il giaccone rabbiosa. Poi:
“Ci arrampichiamo sul bastione? Fino alla stanza delle sentinelle?”
Guardavamo le tettoie dell’autostazione
dal ventre di un grande tonno, smisurato come le arcate.
Per occhio la feritoia al posto di guardia.
Con noi c’era l’arcana
sua simmetria dei sopraccigli
l’urgenza di spendersi
la vicinanza non detta.
Quel giorno capii perché la frutta
piccola e matura
al corpo di una donna è paragone.
Sono tornato oggi nella via
che insegue il muro
in tornanti, in insulari peregrinazioni.
Sfrego una mano sopra i mattoni
del bastione. Lontano stride
l’ingorgo della statale.
C’è qualcosa in quel rumore
che non perdona.
Qui nessuna sibilla
profana, nessun confabulare
oscuri amorosi ammonimenti.
[fotografia di Paolo Talevi]