“Contro la prefabbricazione del mito – ambizione estrema di Hitler e di Goebbels – il lavoro dello storico può aiutare a vincere un’ultima volta il nazismo […] smontando meticolosamente il mito nazista e mostrando fino a che punto quest’uomo [Hitler, ndr] non fosse onnipotente, né fosse il genio che ha preteso di essere […] E’ forse anche questa una delle missioni degli storici: decostruire con pazienza i miti”. Con questa affermazione perentoria, quasi tombale, i due storici francesi Johann Chapoutot e Christian Ingrao chiudono il loro agile volume che ripercorre la biografia di Adolf Hitler contestualizzandola, di riflesso, nella storia tedesca della prima metà del ‘900 (J. Chapoutot – C. Ingrao, Hitler, Laterza). Qualcuno penserà a un volume come tanti di cui sono pieni gli scaffali di biblioteche e librerie, arricchitesi nel secondo dopoguerra di studi e ricerche sul nazismo e sulla cerchia criminale che ottant’anni fa gettò l’Europa nel baratro. Ma in questo caso, pur nella brevità del testo, non è proprio così. Intanto chiarendo da subito che la NSDAP (il partito nazista) non fu mai solo un partito politico ma anche un vero e proprio movimento di tutti coloro che intendevano farla finita con la Repubblica di Weimar in quanto, a loro dire, risultato della “incomprensibile” sconfitta della Germania nella prima guerra mondiale e del successivo trattato di Versailles. E per spazzare via la repubblica democratica subentrata al Reich guglielmino non sarebbe bastato il reclutamento di quadri di destra e di estrema destra (che in Germania pullulavano negli anni ‘20) ma occorreva una vera e propria “controsocietà pronta al momento opportuno a sostituirsi all’organizzazione sociale esistente”. In secondo luogo – altro aspetto significativo del volume – abbinando la progressiva escalation bio-razziale del delirio nazionalsocialista proiettata alla conquista del suo Lebensraum (spazio vitale) a est attraverso la sottomissione e la riduzione in schiavitù degli undermenchen (sottouomini) slavi, con la denuncia delle ragioni profonde dell’inerzia e della sostanziale complicità occidentale di fronte alle pretese hitleriane: il colonialismo e il razzismo esterno (di Inghilterra e Francia) e interno (degli Stati Uniti) non potevano non riconoscersi in un sostanziale lessico comune con quello nazista. In terzo luogo – passaggio saliente del testo – la messa a fuoco di un contesto in cui – oggi la cosa farebbe inorridire – negli anni ‘20/‘30 del secolo scorso, la storia è una narrazione in prevalenza biologica, naturale e razziale da cui la “leggenda” dell’aggressione subita continuamente da millenni dalla razza germanica da parte dell’antirazza (o controrazza) per antonomasia (quella ebraica), alterità irriducibile alla purezza nordica in quanto risultato di una mescolanza e quindi, per i razziologi e gli psicologi razzisti del tempo, sostanzialmente malata e alla fine da eliminare: “da seimila anni l’odio giudaico è responsabile di questa guerra subita dalla razza germanica” è quanto Hitler (e il partito nazista) scrivono negli opuscoli destinati alla formazione storica e biologica (?) dei quadri. Come se ciò non bastasse, in questo aberrante armamentario “culturale”, il delirio di onnipotenza del Fuhrer finirà per combinarsi pateticamente con la sua totale insipienza militare, tattica e strategica. Hitler, secondo i nostri autori, resterà in realtà un povero caporale di terz’ordine della prima guerra mondiale che, a differenza dei suoi brillanti generali – Rommel e Guderian – rimarrà fermo alla guerra di trincea e non riuscirà minimamente a capire come muoversi nei tempi veloci imposti dalla Blitzkrieg (guerra-lampo) al punto da dare un contributo significativo alla sconfitta finale della Germania, imponendo allo stesso Guderian l’Halthefehl (l’ordine di arresto) davanti a Dunquerque dove erano asseragliati 300.000 soldati anglo-francesi in ritirata davanti all’offensiva della Wermacht. Quei 300.000 torneranno, ovviamente, quattro anni dopo con lo sbarco di Normandia a infliggere il colpo finale al Reich hitleriano, già schiantato a est dall’offensiva inarrestabile dell’Armata Rossa.