Vademecum

Kalonge e storie del ritorno

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Come da consuetudine la Land Rover bianca ci viene a prendere, si caricano zaini, strumenti, provvigioni e quant’altro per poi partire. Questa volta è diverso, sono il supervisore dell’équipe e ci sono legami più stretti all’interno del gruppo.

Kalonge è una zona che si trova dentro un grande parco naturale situata a nord-ovest rispetto a Bukavu. La nostra missione è quella di andare e fare sensibilizzazione ai beneficiari[1] di una grande fiera organizzata da AVSI e IRC. I temi su cui dovevamo lavorare erano HIV-SIDA, Protezione e Prevenzione dalle forze armate, dalle malattie, dai conflitti coniugali, separazioni ecc. Partiamo con tanto ritardo da Bukavu per arrivare soltanto quando è notte, la strada non è stata particolarmente difficile, sì abbiamo forato e abbiamo avuto qualche intoppo ma tutto nella norma. All’interno del veicolo è chiaramente una festa, tutti, compresa io siamo eccitati per l’avventura che sta per iniziare, si canta, si gioca, si mangia. Appena arrivati cerchiamo una casa che possa accoglierci per 8 giorni e la troviamo senza troppe difficoltà, una casa in mattoni e non in legno, con un bel salone e due stanze con due letti, bagno e rubinetto dell’acqua all’esterno, soltanto per 30$. Prendiamo quello che troviamo e con tanta stanchezza le ragazze iniziano a preparare il cibo mentre io e Marc raggiungiamo la riunione di tutti gli agenti del terrain per fare il punto della situazione. Arriviamo che era già iniziata da tempo ormai, ci presentiamo e attendiamo dritte. Carl, il supervisore dell’équipe Avsi ci comunica il lavoro che dovevamo fare, gli orari, i temi suddivisi per giorni. Ringraziamo e torniamo alla nostra base. Faceva freddo ma con il cibo in pancia e il fuocherello ci riscaldiamo, organizziamo i ragazzi e le attività e piano piano ci dileguiamo ognuno nelle proprie stanze. Dormo poco o niente, la stanza è fredda, c’è un odore cattivo di muffa, pesce salato e piedi e in più uno strano rumore di ali proprio sopra la mia testa, chiaramente non vado a vedere cos’è. Mi addormento tardissimo con il pensiero rassicurante che mi sarei abituata a tutto e avrei vissuto senza problemi. Così è stato. Mi sono molto meravigliata del mio fisico e organismo, sono riuscita ad abituarmi a cose che non avrei mai immaginato, il buco nero in terra usato come bagno, la doccia sporchissima e piena di ragnatele lontana dalla casa, la mancanza di acqua, mangiare con le mani non sempre pulite, mangiare il foufou, mangiare secondo i loro ritmi (si mangia la sera e la mattina), mangiare il cibo locale, lavarsi la mattina all’alba con l’acqua ghiacciata e andare a letto sporca e sudata, portare il cellulare a caricare in piccole boite dove c’è corrente, bere birra calda, sopportare il freddo e la pioggia, restare bagnata per ore e ore senza poter cambiare i vestiti, utilizzare la torcia come unica fonte di luce, andare al pozzo con il barile a prendere l’acqua… c’è solo un’unica cosa che non rinuncerò mai, bere il caffè la mattina! Ecco questo non potrò mai farlo!

La macchina arriva a prenderci alle 7.30 del mattino per arrivare sul luogo. La fiera era organizzata in mezzo ad un campo, da un lato c’è l’entrata di tutti i beneficiari e dall’altro l’uscita. All’interno, un tendone con delle panche dove viene spiegato come utilizzare i coupon e poi il complesso fiera: bancarelle una accanto all’altra che vendono tutti gli stessi prodotti ovvero materassi, scarpe, vestiti, kikuembe, bicchieri, posate, piatti, bidoni per acqua, bacinelle, alcuni giochi per bambini etc. Lo stock dei commercianti è stato fatto sulla base dei fabbisogni delle famiglie di rifugiati di guerra che si trovano ad abitare in tutto il territorio di Kalonge. Le due grandi ONG organizzatrici della fiera sono andate nelle comunità per domandare quali fossero le necessità di ogni famiglia, hanno messo insieme le risposte, hanno chiamato dei commercianti che potessero vendere la merce richiesta e infine hanno donato dei coupon di 75$ ad ogni persona beneficiaria.

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Povertà, tantissima povertà, ho visto di tutto nei visi di queste persone, molte delle quali hanno marciato anche 12 ore per raggiungere la fiera. Donne, una marea di donne di tutte le età con bambini, bambini attaccati al seno così penzolante e vuoto da farmi anche un po’ impressione, donne di oltre 50 anni che allattavo il bambino mentre compravano, e discutevano. Ragazzine di 22 anni con già 5 figli e senza padre. Donne terrorizzate dall’ira dei propri mariti, avevano paura di comprare perché sapevano che una volte arrivate a casa l’uomo le avrebbe picchiate. Donne che non avendo mai portato scarpe avevano dei piedi enormi, tutti porosi, così duri da poter marciare anche sul carbone. Una miriade di persone che non sapeva né leggere, né parlare swahili. Una miriade di persone malnutrita, sporca, bambini che avevano indosso vestiti con così tanti buchi che ormai il tessuto era quasi inesistente. Mancanza di cibo, il mercato è soltanto una volta a settimana, insufficiente a sfamare tutti. Le uniche provviste che potevano trovarsi tutti i giorni erano le seguenti: farina, cipolle, dagà (sono dei mini pesciolini sotto sale, immangiabili), carne, un tubero particolare molto buono, canna da zucchero, ananas, banane gialle e verdi (le banane verdi vengono bollite e mangiate, buonissime), ngoubià (un frutto della foresta rosso, simile all’amarena, eccezionale! Ne ho comprati due grandi sacchetti e al ritorno a Bukavu ci ho fatto il succo di frutta, buonissimo! Potrebbe diventare un nuovo business dato che ancora nessuno in città lo conosce).

Ho letto storie di ogni tipo su quei volti vuoti ma sorprendentemente sorridenti. Queste persone, e questo che sto per scrivere è una strana sensazione che ho sentito quando mi aggiravo fra loro per scattare fotografie : il loro corpo emana un calore tenue, soffice forse armonioso se posso usare questo termine, fuori è freddo ma in mezzo a loro, quando mi soffermavo per osservare avvertivo questo calore caldo misto all’odore di focolare, legna, cibo e paglia. Mi piaceva stare lì, ero parte anche io delle loro case, delle loro famiglie, del loro passato.

 

Il nostro lavoro, una volta arrivati, consisteva nel preparare lo spiazzo, attirare l’attenzione con il suono dei tamburi, qualche canto e qualche danza e quando iniziava ad esserci fervore iniziare con il teatro. Il teatro è composto sempre da tre scene in cui vengono narrate storie che parlano dei temi accennati precedentemente, mentre si recita si cerca di stimolare il pubblico ponendo domande e andando a recitare in mezzo a loro, per questo si chiama teatro partecipativo. Devo dire che come tecnica di sensibilizzazione questa del teatro è davvero efficace, il messaggio passa indirettamente, la gente lo percepisce e gli rimane in testa perché lo lega ad una storia. Dopo questa attività ci si riposava un poco, aspettavamo che tutti i beneficiari, ordinatamente numerati e inseriti nella lista venissero, a gruppi, sotto il grande tendone principale dove venivano spiegate loro le regole. Io con i miei ragazzi aiutavamo le persone più anziane a strappare i coupon e tenerli bene in vista pronti all’uso. Una volta terminata questa funzione si andava all’interno della fiera per affiancare tutti coloro che non potevano leggere i numeri e parlare swahili. Io chiaramente questo lavoro non potevo farlo parlando solo francese quindi o monitoravo che i ragazzi stessero tutti bene (le condizioni climatiche erano davvero insopportabili, o sole cocente o pioggia torrenziale) o andavo ad aiutare gli agenti AVSI con la catalogazione dei beneficiari oppure mi trovavo all’uscita per chiedere ai partecipanti se il messaggio del nostro teatro fosse davvero passato. Si lavorava tanto e duramente, soprattutto i ragazzi, sono stati non bravi ma eccellenti. Verso le 15.00/16.00 sempre a seconda del clima si riprendeva la macchina per tornare a casa. Questo è ciò che abbiamo fatto per i 7 giorni a Kalonge. Poi c’è il contorno del lavoro in fiera. Quasi tutte le mattine la pioggia scendeva e scendeva e le macchine scivolavano su quella terra così bagnata, spesso dovevamo camminare, spesso siamo stati intoppati perché altre macchine davanti alla nostra si ribaltavano, finivano in un fosso e spesso venivamo bloccati da mini cortei, due volte legati alla nascita di un bimbo, una volta ad un matrimonio e una volta, cosa che non avevo mai visto se non nei film, un gruppo di uomini che portavano una barella sulla quale c’era una ragazza molto giovane, incinta, palesemente sofferente, stavano correndo e correndo per raggiungere l’ospedale più vicino, l’unico nella zona. Eravamo perennemente in ritardo sia all’andata che al ritorno, strada non tanto più facile, melma, fango, acqua e tanta acqua. Quando entravamo a casa avevo dato l’ordine di libertà, ognuno si sbivaccava come voleva, chi lavava i vestiti, chi preparava da mangiare, chi giocava, chi andava in centro villaggio a ricaricare il cellulare e chi, ogni volta, mi rompeva le scatole con mille domande. Sì, per me non c’era mai un attimo di riposo, i ragazzi mi chiamavano di continuo Miriamu, Miriamu, Miriamu e qui non è che iniziano a parlare dando per scontato che io li stia ascoltando, devono per forza chiamarti nonostante tu sia accanto. A volte scappavo di casa per qualche minuto, camminavo sola a scrutare i paesaggi e assaporare l’odore dell’aria pungente. Non mi assentavo mai per tanto, alla fine faceva piacere anche a me stare con loro e fare parte delle loro conversazioni. Siamo stati una bella famiglia di 9 persone per 8 giorni, siamo stati davvero bene.

Lunedì era vacanza, non dovevamo andare in fiera. La mattina ci siamo svegliati con molta calma a differenza delle altre, abbiamo mangiato, lavato i vestiti e ognuno si è preparato a festa: le ragazze si sono truccate e profumate, i ragazzi hanno lavato le scarpe (dovete sapere che avere le scarpe sporche per un congolese è un’eresia, devono essere sempre lustre nonostante fossimo in mezzo al fango) e messo il gel nei capelli. Una volta pronti siamo andati verso il centro, io non ci ero ancora andata, è stata la mia prima volta quel lunedì lì. Pioveva chiaramente ma sembrava di stare nel Far West, un’unica strada principale con tutte le case in legno costruite a lato, peccato la pioggia se no avremmo sicuramente visto qualche balla di fieno smossa dal vento! Facciamo una piccola camminata e poi con alcuni entriamo in un mini locale a prendere una birra, calda ovviamente. Dopo qualche istante ci raggiungono 4 agenti di AVSI che si siedono con noi, anche per forza il tavolo era solo uno. Mini premessa: qua quando incontri qualcuno che non conosci le prime domande che fanno sono le seguenti: sei sposata? Hai dei figli? Sei cattolica? Dove vai a pregare? A seconda del mood in cui mi trovo do risposte diverse, quella volta lì, nel mezzo di un Far West immaginario, con la pioggia e il vento gelido che arrivava alle caviglie decisi di – sapendo anche di avere davanti persone che comunque lavorano per AVSI che hanno un istruzione – mettere in discussione la loro assoluta convinzione che il mondo sia stato creato da Dio e quindi Adamo ed Eva e via dicendo. E’ nata una conversazione da toni brillanti ma altrettanto tesi, il punto è che non conoscono il significato e/o l’esistenza del Big Bang, non lo studiano a scuola e perciò ne sono totalmente all’oscuro. Hanno la Bibbia come punto di riferimento e modellano la loro vita su questo libro tanto prezioso quanto pericoloso e sviante. Se c’è qualcosa di brutto che arriva nella vita, beh è perché Dio l’ha voluto, se, e questo vi assicuro che non è uno scherzo ma l’ho vissuto proprio una mattina lì a Kalonge, la strada è brutta, c’è il rischio che la macchina possa scivolare giù nel dirupo ma è l’unica che può permetterci di raggiungere la destinazione, beh la percorriamo lo stesso perché sarà Dio che ci proteggerà! Quel folle autista era pronto a mettere in pericolo la vita di 9 ragazzi perché tanto sarà la volontà di Dio. Quella mattina, quando ho sentito quelle parole ho perso la testa, l’ho insultato e ho ordinato a tutti di scendere immediatamente dalla macchina. Vedete, ho capito che ci sono delle cose eticamente radicate nella cultura di un popolo, così morbosamente e ossessionamene onnipresenti nella vita di certe persone che la razionalità umana viene totalmente annullata per essere rimpiazzata da questa invisibile spiritualità divina che regna sul destino di innumerevoli uomini neri. La capisco e non la capisco, non potrò mai accettarla.

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Il giorno del ritorno da Kalonge è stato davvero il giorno delle sfortune. Eravamo tutti molto stanchi, comunque la vita che abbiamo fatto non è stata per niente facile, la notte non si dormiva dal freddo, durante il giorno si lavorava e si teneva sempre attiva la testa, l’ultimo giorno non vedevamo l’ora di salire sulla macchina ed essere depositati a casa, a Bukavu. Il giorno del ritorno, nonostante la tanta stanchezza fisico-mentale è sempre una grande eccitazione come il giorno dell’andata. Ci prepariamo tutti puntuali, la macchina tarda di circa due ore ma non importava, la cosa fondamentale è che saremmo presto rientrati. Carichiamo di nuovo zaini, tamburi, provviste e partiamo. Nessuno parla questa volta, ognuno è perso fra il proprio sonno e il paesaggio fuori, cercare di dormire era praticamente impossibile dato che stare su quella macchina è come stare sulle montagne russe. A circa un’ora dalla partenza ci arriva un messaggio dalle radio altoparlanti che il veicolo Simba, il quale ci avrebbe incontrato per poi portarci a Bukavu ha fatto un incidente. Non ci viene svelata la natura dello stesso. Come ho già detto c’è soltanto una strada che connette la città al villaggio e quindi, inevitabilmente, raggiungiamo la macchina incidentata la quale era totalmente rovesciata giù per la collina. Panico. Scendiamo dalla nostra, ognuno un po’ dal sonno e un po’ dalla fatica barcolla verso il luogo dell’incidente, ancora un po’ confusi realizziamo che avremmo dovuto attendere molto prima di poter ripartire. I più coraggiosi iniziano ad aiutare a svuotare la macchina finita nel fosso, io ed altri non facciamo altro che brontolare ed osservare mentre intanto la pioggia arriva e ci obbliga a ripararci sotto grandi ombrelloni da mare appena tolti dal veicolo Simba. Buffe situazioni, non sai se arrabbiarti, se piangere, se ridere, se maledire non so chi. Attendiamo che la pioggia finisca e attendiamo a lungo. Intanto fa freddo e non abbiamo cibo. Siamo stati lì, fermi in quel luogo per 5 ore. Abbiamo dovuto aspettare che due veicoli arrivassero da Bukavu per trainare la macchina fuori dal dirupo. Nel frattempo si era raggruppato un discreto pubblico di spettatori curiosi che si sono uniti alle nostre sensazioni confuse, se noi ridevamo ridevano anche loro, se noi imprecavano ci guardavano accondiscendenti. Alla fine eravamo almeno 100 persone a fare il tifo per i coraggiosi autisti all’opera nel recuperare la macchina. Ripartiamo finalmente, in totale siamo 3 veicoli Avsi. La notte cominciava a scendere e le disavventure aumentare. Nemmeno dopo qualche Km il veicolo dietro al nostro scivola con la ruota destra dentro una buca profondissima e via ancora tutti fermi, prendi il cric, prendi la pala e il piccone e inizia a lavorare. Io, con la metà dei ragazzi non ci muoviamo dal nostro veicolo, aspettiamo soltanto. Era ormai notte, due macchine accidentate e la pioggia non smetteva di scendere. Mancava soltanto la nostra macchina e… detto fatto! Il nostro autista perde il controllo e cadiamo completamente appoggiandoci sul fianco destro e sradicando un albero in una buca altrettanto profonda. Siamo obbligati a scendere. I più bravi hanno dato una mano all’autista ma la situazione non sembrava risolversi. In più faceva buio e le torce non bastavano per illuminare bene. Non eravamo molto distanti dalla strada asfaltata quindi ci arriva la comunicazione di raggiungerla a piedi e aspettare il veicolo là. Abbiamo camminato al buio, sotto la tempesta, al freddo, senza cibo né forze, scivolando continuamente per almeno un’ora e più. La Land Rover arriva, saliamo su, tutti bagnati, l’aria fredda che entrava dalla macchina danneggiata ma almeno la strada era asfaltata. Arriviamo in città, scarichiamo Marc e proseguiamo verso il punto di arrivo. Pioveva ancora, non ha mai smesso. Disperazione totale quando l’autista si ferma, si gira verso di noi con la faccia di chi aveva visto morire qualcuno e ci dice “Ho forato!”. Mancava soltanto qualche km per arrivare! Scendiamo per l’ennesima volta, si cambia il pneumatico con un altro, troppo sgonfio, si cambia quest’ultimo con il secondo di scorta anch’esso troppo sgonfio. Ormai eravamo al limite di ogni speranza, siamo obbligati ad aspettare un altro veicolo Avsi che potesse portarci una gomma di scorta. In quel momento non desideravo altro che cambiarmi i vestiti con qualcosa di asciutto, questo era il mio unico pensiero. L’autista arriva, cambiamo e ripartiamo. Arrivo a casa alle 22.30 di sera dalle 6.30 che ero sveglia, a casa per fortuna mi accolgono con grande calore, mi avevano già preparato dell’acqua calda per la doccia e la cena. Mangio, mi lavo e faccio uno dei sonni più profondi da quando sono arrivata in R. D. Congo.

A presto, Miriam

[1] Beneficiario non è esattamente il termine giusto, ho tradotto dal francese. Con beneficiario intendo tutte le persone che hanno usufruito del servizio a loro consentito (coupon da 75$).

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