Sabato mattina del 28 marzo 2020. Sto rientrando dalla visita alla mia anziana madre che vive da sola nel centro storico di Fano. In bicicletta attraverso Piazza XX settembre, la piazza principale della città. Nei sabati “normali” evitavo di passare di lì; le poche volte che l’avevo fatto, ero finito in una piazza gremita, ingombra di bancarelle e di clienti, per attraversarla dovevo aprirmi un varco tra i bar e i loro tavolini.
Oggi, cancellato il mercato, chiusi i bar, spariti i tavolini. Solo due anziani sulle panchine ai margini della piazza; stanno al sole, molto distanziati tra loro.
Ma la piazza non è deserta, è abitata dai piccioni; uno si permette di starsene accovacciato sul selciato tutto per lui; altri si lavano nella fontana della Dea Fortuna, poi, tranquilli, si portano sul bordo ad asciugarsi.
Vicino alla fontana sorge la chiesetta di San Silvestro Papa, dove è ospitata la seicentesca immagine della Madonna della Santa Speranza, conosciuta anche come Madonna di Piazza; è a lei che i fanesi invocarono la protezione contro il morbo epidemico del colera che aveva raggiunto la città nel 1855.
Ma quelli erano altri tempi, penso.
Giunto a casa, accendo la televisione; mostra un’altra piazza, quella di San Pietro a Roma, anch’essa vuota, c’è un uomo solo, vestito di bianco. Nella benedizione Urbi et Orbi di ieri sera, sotto il crepitio della pioggia, in una luce livida, Papa Francesco dice che “Fitte tenebre si sono addensate sulle nostre piazze, strade e città: si sono impadronite delle nostre vite”. Il Pontefice implora Dio: “Ora, mentre stiamo in mare agitato, ti imploriamo: ‘Svegliati Signore!'”, “non lasciarci in balia della tempesta”.
Trovo quelle immagini potenti, suggestive, anche se mi fanno tornare alla mente l’intervento ad una trasmissione televisiva di pochi giorni fa (Tagadà, 19 marzo) del matematico Piergiorgio Odifreddi a proposito di un’altra uscita di Papa Francesco, quella del 15 marzo, quando a piedi aveva lasciato il Vaticano e raggiunto la chiesa di San Marcello al Corso, dove si trova il Crocifisso che nel 1522 venne portato in processione per i quartieri della città perché finisse la ‘Grande Peste’ a Roma. Con la sua preghiera, il Papa aveva invocato la fine della pandemia.
“È solo superstizione”, aveva sbottato il matematico. “Siamo ancora un Paese medievale. Ho visto il Papa a passeggio per le strade per chiedere a Dio di fermare l’epidemia. Ecco questo è il nostro Paese”.
Chiuso dentro casa, una parte del tempo lo passo a leggere. Ho appena terminato “La peste” di Albert Camus, cerco un altro libro nella (ricca) biblioteca di mia moglie (grande lettrice), ma cosa? A guidare occhi e mano, mentre passo in rassegna le copertine dei libri, due spinte contrastanti, da una parte il non potere girare per il territorio mi ha fatto venire voglia di evasione, quindi di un romanzo di avventura che mi trasporti lontano, dall’altra il desiderio di saperne di più dell’epidemia che incombe sulla vita, mia e di tutti.
Le mie mani stanno perlustrando l’angolo della biblioteca dove sono raccolti i libri dello scrittore statunitense Frank Gill Slaughter. Prima di dedicarsi alla scrittura aveva svolto il lavoro di chirurgo. I suoi libri si basano sulle sue esperienze nel mondo della sanità e appartengono al genere thriller medico. I miei occhi cadono su “La nave della pestilenza” – Slaughter fu ufficiale di una nave ospedale nel Pacifico durante la seconda guerra mondiale. Leggo nell’aletta della sovracopertina il riassunto di quel romanzo scritto nel 1977; sì, c’è avventura: il fratello del protagonista (l’epidemiologo Grant Reed) è un archeologo che, nello scoprire antiche tombe (di 5000 anni fa) dentro una grotta sigillata nelle Ande peruviane, ha riportato alla luce un virulento microbo sconosciuto, capace di causare una pandemia in quanto non esistono vaccini o altri farmaci per combatterlo.
Ci vedo un nesso con il coronavirus responsabile dell’epidemia in corso, anch’esso finora sconosciuto, anche se, anziché dal passato, arriva da un’altra specie – “spillover” chiamano gli scienziati il passaggio di un virus da una specie animale all’uomo.
Apro una pagina a caso e leggo: “Una coltre di paura era sospesa sopra Chimbote come una nube pesante, quanto Grant e Homer Ferguson percorsero le strade con il pulmino dotato di altoparlante. Non c’era quasi nessuno […] Anche i tavolini davanti alle cantinas erano quasi deserti; solo qualche vecchio si avventurava ancora a sedersi al sole per discutere degli avvenimenti riportati dai giornali che leggevano lì ogni mattina, bevendo lentamente la chicha per farla durare più a lungo.
Il vento soffiava fra gli eucaliptus e il morbido fruscio delle palme era quasi l’unico suono. Persino gli uccelli sembravano essere intimoriti dal silenzio incombente sulla piazza e dai grandi manifesti gialli del Dipartimento di Sanità, che avvertivano dell’epidemia e ammonivano di evitare gli assembramenti.”
Ah, però, silenzio incombente sulla piazza, mi ricorda qualcosa!
Leggo altre pagine e trovo altre situazioni simili a quelle del presente:
“«Se l’afflusso di malati continua al livello attuale», ribatté Jack Smithson, «tutti i letti e le cuccette dell’ospedale per domani a mezzogiorno saranno esauriti. E allora?»
«Il dottor Figueroa requisirà i magazzini del molo e li trasformerà in ospedali di emergenza».
E’ solo un romanzo d’avventura eppure ci trovo pure collegamenti tra epidemia e fede:
“«E’ come una pestilenza biblica», esclamò padre Branigan.
«Quando nei tempi biblici si diffondeva una pestilenza, veniva sempre considerata una dimostrazione dell’ira di Dio, ma oggi nessuno ha commesso qualche cosa per meritare il castigo»”.
La mia mente torna all’immagine di ieri del papa solo nella piazza deserta. Mi risuonano ancora alla mente le sue parole: “non lasciarci in balia della tempesta”.
“Soltanto la radio, con i suoi bollettini giornalistici, li teneva a contatto col mondo esterno, ma nulla di quanto accadeva era in grado di sollevare gli spiriti. Anche se succinte, le trasmissioni indicavano un graduale aumento del panico nel mondo, mentre il bacillo yungay continuava la sua inesorabile marcia. Sembrava davvero che il germe avesse finito per essere un’autentica maledizione biblica, scatenata su un mondo in cui la maggior parte delle antiche virtù rispecchiate nei Dieci Comandamenti e nel Sermone della Montagna sembravano per lo più dimenticate”;
In un’altra pagina l’autore, attraverso un dialogo tra padre Branigan e l’epidemiologo Grant, dà la sua risposta al dilemma fede/scienza:
“«… Oppure, potrebbe essere la volontà di Dio che gran parte del mondo venga venga distrutto da questa epidemia in modo che, una volta purificato, possa derivarne una nuova e migliore razza umana».
«Non mi sento di sottoscrivere questa teoria, padre. Essendo uno scienziato, non c’è nulla che consideri più sacro o immutabile delle leggi fondamentali della natura».
«Neppure Dio?».
«Considero le leggi della natura come la voce di Dio. Esse mi dicono che Egli esiste ma mi dicono anche che, avendo creato qualcosa di tanto perfetto come la natura, Dio non interferirebbe nelle sue leggi fondamentali, a meno di una ragione eccezionale».
«Lei nega i miracoli?».
«Non posso accettare che Dio scenda a guarire John Smith [l’equivalente del nostro Mario Rossi N.d.R.] perché un credente pone le mani su di lui o le unge con olio. Per me un Dio di questo tipo sarebbe irresponsabile e imprevedibile, mentre nulla nell’universo può essere più responsabile e più prevedibile delle leggi della natura».”