…libro dell’ombra…

Sento che niente sono, se non l’ombra

di un volto imperscrutabile nell’ombra:

e per assenza esisto, come il vuoto.

Fernando Pessoa

Smurata ormai è la porta, e già da tempo l’Ombra del volto “a quella estrema luce / d’altra sponda” annuncia nel silenzio l’incontro: essere poeta è davvero ora conversare per assenza con colui che “anche se chiamato / non risponde”. E’ adagiarsi agli infiniti verbali senza ansia, ‘fingendoli’ così completamente tanto da sentirli come solo servizio del vocabolo, della sua chiamata

Porto in salvo dal freddo le parole,

curo l’ombra dell’erba, la coltivo

alla luce notturna delle aiuole,

custodisco la casa dove vivo,

dico piano il tuo nome, lo conservo

per l’inverno che viene, come un lume.

portare, curare, coltivare, custodire, dire, conservare, sono allora per il poeta non postulanti atti, la parola mai viene dal verbo ‘ambita’, semmai sorpresa a valicare assieme lo spazio che li separa: la soglia. Questa la ‘maniera’ del poeta di essere poeta, la sua maniera di stare solo, solo con l’ombra

che cosa è uno scrittore? domandava Reb Hod a un narratore celebre. Un letterato? No., certo: un’ombra con un uomo sulle spalle

così Jabès nella sua inquieta, lacerante eterna interrogazione, sembra accompagnare la parola del poeta, traccia e ricerca anch’essa di una domanda paziente e bianca, sopravvissuta all’inchiostro come il suo prato

Ecco cos’è ogni volta

la vacanza

nel lontano da sé,

la strada bianca

su cui l’ombra di un’ombra

un’ombra affianca

al nulla muto

che non ha speranza,

quel povero deserto

d’ore insonni

in cui tutto, per sempre,

è eterno e niente.

Ecco cos’è quel preludio che allora scandisce fino al suo settimo la sinfonia di un racconto che si respinge e lontano da sé si lascia venire per divenire ancora e soltanto scoperta e sorpresa della parola nel suo ultimo istante: udita e scritta v’è di nuovo un respiro a coglierla nella sua fragilità e limpidezza disarmante, il respiro di un’ombra che l’affianca.

Sconosciuti per distanza i poeti sanno scambiare parole nella vicinanza la loro voce straniera al mondo è ciò che invece sempre più li lega, nell’intimità di un’avventura che annulla le differenze. E’ qui che risiede la loro prossimità: “Lontano da me in me esisto” (Pessoa).

“nel lontano da sé”, vacanti, in sé, la scoperta dunque di una “strada bianca” incondizionata, smisurata, infinita. Lì, lontano da sé, eppure nell’intimità del sé sono tutte le strade; in ogni distanza, direzione o fine, il poeta può finalmente appartenersi, adiacente alla prima declinazione dell’essere sono io. Il resto è l’altra parte di sé, non persa, ma dis-persa, “parte in cerca dell’altra parte” (Convito) in perenne interrogazione: “Dove cercarla e come / la tua finestra accesa?”.

Praeludere, esercitarsi, prepararsi a una prova, far prova, giocare, quando? Prima: sulla soglia di quell’ “Infanzia immortale, innocente azzurro”, recita per noi il secondo preludio, e l’invito ad esso è una “Passeggiata orientale”, un adagio del cammino, lo svago che senza meta precisa può, perché ancora sa, cogliere il colore grigio del freddo, la cadenza del battere di un lungo filo di ferro “contro il palo di legno della luce e … i segni, i segni di una guerra sepolta coi soldati”. E’ un passo quello del poeta che gradualmente si apre, si stende, tende verso il levante, là ‘dove la linea dell’orizzonte non si vede’, verso quell’oriente, dove “dans l’éclat du moment”, ci ricorda Max Loreau, la poesia scaturisce così come essa è, illuminata e oscura come un oracolo.

Forse è solo il grado, quel ‘muovere il passo’ verso il mondo, ‘sui gradini del mondo’, ‘con pudore’, la poiesis che permette la visione, che permette alla visione di porsi come termine di movimento e al non essere, quindi, ‘di rendere’, reso ai dove del niente, di rendere possibile la fecondità come movimento verso l’essere, senza essere l’essere. Questa la concretezza del sentire creativo in Francesco Scarabicchi, questa la vera scoperta dell’alterità, la sua ‘ombra bianca’, il suo altro non chiedere ‘nella luce che tocca / la morte che non vedi / e che ti affianca”.

C’è qualcosa che va dal nulla al tutto e dal tutto al nulla, e nel ‘giorno che si arrende’, ‘chi trema nell’attesa’, sa ascoltare ancora le parole diOrfeo: “E’ stato necessario che io scendessi nelle tenebre dov’eri e diventassi un timoroso … ma anche le parole di Euridice … “Siamo ovunque riuniti, nulla potrà separarci, finché ci sarà qualcosa di oscuro, questi lunghi flutti neri, in fondo al tempo che passa”.

Non è dato a me, se non in una comune esperienza di coinonia poter aggiungere altro. Mi resta il favore di essere stata ospitata da Francesco Scarabicchi in queste ‘segrete’ chartae, in questo quieto compagno libro che avvia a risillabare il rumore del mondo.

Clausola

Ho inteso più volte, in questo secolo,

sussurrarmisi all’orecchio le parole.

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