“E mentre gli uni continuavano la loro piccola vita adattandosi alla clausura, per altri invece, d’allora in poi, l’unica idea fu quella di evadere dalla prigione”
(Albert Camus, La peste, 1947)
Il distanziamento sociale credo di averlo cercato molto spesso, prima dei tempi del coronavirus, per tutta la vita.
Con l’inverno che volgeva al termine mi stavo preparando alle mie passeggiate solitarie in montagna. Avevo già programmato di dedicare la primavera del 2020 allo studio di anfibi e rettili, avrei partecipato ad una campagna di rilevamento della erpetofauna della provincia di Pesaro e Urbino. Avevo richiesto il permesso al Ministero dell’Ambiente nell’eventualità di dovere maneggiare gli esemplari. La costruzione di un piccolo acquario portatile (da zaino) mi avrebbe consentito di fotografare gli anfibi sul posto nell’elemento acquatico. Avevo individuato i luoghi in cui mi sarei recato appena la morsa dell’inverno allentava la presa tenendo conto del periodo giusto in cui visitarli, doveva corrispondere a quello in cui le specie di anfibi raggiungevano pozze, abbeveratoi, torrenti per la riproduzione e la deposizione delle uova. Già pregustavo lo stare da solo in mezzo al bosco, esplorare in solitudine le sponde di ruscelli di montagna.
Il decreto per contrastare la pandemia dell’8 marzo fece scomparire le occasioni alla mia (blanda) vita sociale pre-coronavirus. Le presentazioni dei libri e gli altri eventi letterali a cui mi piaceva partecipare erano stati cancellati o rinviati sine die; così come erano stati interrotti gli incontri (quasi) quotidiani con gli altri volontari dell’Associazione Naturalistica Argonauta nel centro di educazione ambientale fanese, Casa Archilei.
Su questo non avevo nulla da ridire, le goccioline foniche sono un pericolosissimo vettore del COVID-19, non si poteva non condividere evitare potenziali occasioni di contagio; mentre mi sembrava del tutto inutile l’eliminazione delle mie passeggiate solitarie, non contemplate dalle misure di contenimento dell’epidemia: chi non doveva muoversi per lavoro, per motivi di salute, per necessità, doveva restarsene a casa, in ogni caso non era autorizzato a lasciare i propri confini comunali; tra l’altro la mia provincia, era all’interno della zona definita arancione, ne era la propaggine più meridionale.
Il legislatore (in questo caso il Presidente del Consiglio) non aveva previsto che c’è chi, come me, si mette in macchina per aumentare il distanziamento sociale.
Qualcuno potrebbe pensare: “ma come, ti preoccupavi delle passeggiate nella natura mentre c‘era gente intubata, che moriva, che perdeva la fonte di reddito!”. In tanti durante l’epidemia, in televisione, nei giornali e nei social, hanno fatto questi collegamenti dall’esito inutilmente colpevolizzanti. Come ha ricordato il collettivo bolognese Wu Ming (Il Cammino n. 219, 21 marzo 2020), queste affermazioni sono una variante della più nota: «Mangia anche se non ti piace, che in Africa i bambini muoiono di fame!».
Tali tipi di affermazione non-pertinenti e insensate sono state oggetto di studio da parte del filosofo americano Harry G. Frankurt, autore del saggio filosofico “Stronzate” (Milano, Rizzoli, 2005). Come ricorda Girolamo De Michele: “Frankfurt arriva a una definizione accettabile di “stronzata”: se tanto il sincero quanto l’impostore hanno al cuore dei propri enunciati il valore della “verità” — questo per negarla, quello per affermarla — chi dice una stronzata è del tutto indifferente alla verità o falsità del suo enunciato. In altri termini, nella stronzata il contenuto di verità non è rilevante, e nell’animo dell’enunciante non c’è la volontà di giocare al gioco della verità: «Uno che mente e uno che dice la verità giocano in campi opposti, per così dire, allo stesso gioco. Chi racconta stronzate ignora completamente tali esigenze”.
Cancellate le uscite nell’Appennino, per un po’ continuai a girare in bicicletta nel territorio comunale, infatti il secondo decreto, il dpcm del 9 marzo, se da un lato estendeva a tutta Italia le norme previste nel dpcm dell’8 marzo per la Lombardia ed altre 14 province, aveva modificato la lettera D dell’art. 1 del predetto testo, consentendo le attività sportive e motorie all’aperto a condizione che fossero rispettate le distanze interpersonali di 1 metro.
Il mio muovermi nella natura è anche un’attività motoria.
Con i decreti successivi la situazione si fece ancora più ingarbugliata; nel vademecum del Ministero dell’Interno sulle regole per gli spostamenti il 1° punto riportava: “Non si può uscire di casa se non per validi motivi “; il 2° punto li illustrava: “Si può uscire di casa per andare a lavoro, per ragioni di salute o situazioni di necessità. Per provare queste esigenze dovrà essere compilata un’autodichiarazione che potrà essere resa anche seduta stante sui moduli in dotazione alle forze di Polizia”. Ma poi al 10° punto si diceva in maniera chiara che non era vietata l’attività motoria all’aperto: “Lo sport e le attività motorie svolte negli spazi aperti sono ammessi nel rispetto della distanza interpersonale di un metro. In ogni caso bisogna evitare assembramenti”.
Quindi io continuai a fare uscite in bicicletta; stavo facendo attività fisica all’aperto; in tempi non sospetti il medico me la aveva consigliata per combattere la mia ipercolesterolemia.
La mia bici non percorreva affollate piste ciclabili, si dirigeva, solitaria, verso le rive del Metauro, verso la campagna.
Quei luoghi, che prima potevo raggiungere velocemente in auto, ora li guadagnavo lentamente attraverso lunghe pedalate.
Portavo con me il binocolo e la macchina fotografica. Li estraevo dalla borsa della bicicletta quando intravedevo qualcosa d’interessante, un uccello migratore, un insetto uscito precocemente dall’inverno, ma lo facevo con circospezione; quasi che stare fuori casa ad osservare la natura fosse qualcosa di proibito, di sconveniente.
“E restano appunto da delineare, prima che si giunga al culmine della peste e mentre il flagello radunava tutte le sue forze per gettarle sulla città e impadronirsene definitivamente, i lunghi sforzi, disperati e monotoni, che alcuni individui superstiti, come Rambert, facevano per ritrovare la felicità e per togliere alla peste quella parte di se stessi che difendevano contro ogni attacco. Questo era il loro modo di rifiutarsi alla schiavitù che li minacciava” (Albert Camus, La peste, 1947).
Nella stampa erano pochi coloro che se la sentivano di fare notare che chi passeggiava a distanza di sicurezza non aveva responsabilità per l’aggravarsi della situazione negli ospedali, che non parlando con nessuno non produceva le pericolose goccioline foniche.
“Sembra quasi che il problema del Paese non sia il disastroso sovraccarico del sistema sanitario, no, il problema è… il jogging. Chi fa jogging è un irresponsabile, «non fa la sua parte», «è un provocatore», per il semplice fatto di mostrarsi fuori di casa «svilisce lo sforzo» (manca solo «bellico») di chi ha accolto l’invito a stare in casa col maggior zelo possibile e spara dalle finestre l’Inno di Mameli.” (Wu Ming, Criminalizzare chi fa jogging e passeggiate, Il Cammino n. 219, 21 marzo 2020)
Sugli organi di stampa e sui social prevalevano gli interventi in cui si criminalizzava chi usciva di casa, anche se lo faceva nel rispetto delle regole vigenti e senza assembrarsi con nessuno. Si creavano delle correlazioni inesistenti tra i posti in terapia intensiva che rischiavano di implodere e le persone uscite dalle proprie mura.
“C’è ancora chi, giocando tra le righe del decreto, approfitta dell’ora d’aria per fare jogging, andare a fare la spesa e chi, più temerario, passeggia tra le strade della città in compagnia del proprio cane” (yahoo notizie, 19 marzo 2020).
Demonizzare chi non stava tappato dentro casa produsse degli effetti, due giorni dopo ecco cosa riportava lo stesso organo d’informazione:
“E anche alla signora che ieri sera ha urlato contro me e mia sorella che tornavamo dal lavoro con le nostre biciclette, ovviamente distanziate: “Andate a casa!”. Questo il messaggio postato su Facebook da una farmacista salernitata, Antonia Grimaldi. La donna è stata insultata e le è stato buttato un secchio d’acqua addosso mentre stava tornando a casa dal lavoro” (Yahoo notizie, 21 marzo).
E così si giunse al 20 marzo quando le ordinanze del Ministero della Sanità e della Regione Marche – la mia regione -, contemporaneamente, vietarono qualsiasi attività motoria non svolta in prossimità della propria abitazione.
Con queste ordinanze ebbero termine le mie solitarie uscite in bicicletta alla ricerca del contatto con la natura; interruzione che non portò alcun miglioramento alla situazione ospedaliera.
Mentre gli uccelli erano liberi di posarsi su qualsiasi ramo, di contemplare il mondo quanto volevano e gorgheggiare, a me era stata tolta la libertà di movimento e con essa il piacere di osservare la natura.
Quando i numeri (dei contagiati, dei ricoverati in terapia intensiva, dei decessi) iniziarono a scendere, il governo creò una nuova commissione per programmare la fase 2 del lockdown che si aggiunse alle altre commissioni già nominate; centinaia di scienziati, sociologi, economisti, psicologi, psichiatri e tanti altri esperti avrebbero riflettuto su come “riaprire” il Paese in presenza del coronavirus. Oltre al mondo produttivo, anche il popolo recluso attendeva il responso. Ma per molto tempo l’unica cosa certa di tanto cogitare fu che bisognava lavarsi frequentemente le mani e stare dentro casa.
Di tanto in tanto, negli organi di stampa qualche voce isolata, tornava a dire che il problema non erano coloro che uscivano all’aperto isolati, come Massimo Gramellini che il 15 aprile nel “caffè” scrisse: “I delitti del telo da spiaggia”: “Da alcuni giorni un uomo dall’aspetto innocuo, almeno in apparenza, raggiunge di buon’ora la spiaggia deserta di Mondello, srotola un asciugamano e vi si stende sopra per prendere il sole. Si ignorano le ragioni del folle gesto, reso ancora più grave dalla recidiva. Ieri il criminale, che si mantiene a distanza di sicurezza da granchi e meduse per scongiurare sanzioni ancora più gravi, è stato snidato da un elicottero della polizia, le cui pale hanno girato vorticosamente a pochi metri dalla sua testa per indurlo alla ritirata. Il reo confesso ha pagato la multa senza fiatare. Meglio, ha fiatato, ma solo per minacciare che tornerà. La prossima volta troverà ad accoglierlo non soltanto gli elicotteri, la contraerea e l’alabarda spaziale, ma le telecamere di qualche programma televisivo, smaniose di documentare in diretta l’inseguimento e la cattura del reprobo, con annessa fustigazione pubblica o altra punizione esemplare, come l’obbligo di scrivere cento volte sulla sabbia: «Perdono, non lo faccio più». […] C’è qualcuno che comincia a preoccuparmi più dei trasgressori ed è chi si accanisce istericamente contro di loro ”
Il 16 aprile sulla rassegna stampa del Corriere della sera lessi l’articolo di Larissa Kyzer comparso su Iceland Review (riportato da Paolo Valentino) su come le autorità islandesi stavano affrontato il problema del coronavirus. Il Servizio Forestale dell’Islanda aveva rivolto l’invito ai cittadini dell’isola atlantica di avventurarsi nei boschi per indulgere in un letterale abbraccio con la natura.
“… la pandemia ci costringe all’isolamento, vietandoci il contatto con altri esseri umani, abeti, larici e betulle possono offrirci quel senso di conforto e protezione che ci manca nell’emergenza. A questo proposito, i rangers islandesi stanno già ripulendo e ampliando i sentieri coperti di neve della Hallormsstadur, la più grande foresta del Paese, per favorire questi incontri evitando contatti ravvicinati con altre persone. «Quando abbracciate un albero è bene chiudere gli occhi», ha spiegato Thor Thorfinnsson, manager delle foreste nell’Est dell’Islanda, all’emittente nazionale RUV. «Pressando le mie guance contro la corteccia sento il calore e il fluido che emana dall’albero entrare dentro di me. Inizia dai piedi, sale su per le gambe, l’intero corpo e arriva al cervello. È un modo fantastico per rilassarsi, superare il senso di isolamento e accumulare energia per affrontare un nuovo giorno»”.
Quanta distanza tra la penisola italiana e l’isola atlantica!
La forma più dura del confinamento durò fino al 4 maggio, ma prima di quella data circolarono delle indiscrezioni secondo le quali il confinamento sarebbe stato prorogato per le fasce d’età più anziane, dapprima si parlò degli ultraottantenni, poi che sarebbe stato opportuno allargarlo ai settantenni, infine che anche i sessantenni – categoria a cui appartengo – sarebbero dovuti restare confinati a casa. Furono soltanto voci, ma sufficienti a “allietare” i miei ultimi giorni della fase 1 del lockdown.