Letture

“Il collezionista delle piccole cose” di Jeremy Page

 

 

1845, il giovane naturalista Eliot Saxby si imbarca sul brigantino Amethyst, diretto verso il Mare Artico. E’ in cerca dei resti dell’Alca impenne, uccello marino incapace di volare estinto ad opera degli uomini delle spedizioni artiche – le ultime due alche impenni furono uccise da pescatori islandesi nel 1844 e l’uovo che la coppia stava covando venne deliberatamente distrutto.

«Posso vedere l’uccello che state cercando?» mi chiese, interessato.

«Ma certo». Andai subito alla pagina in cui avevo messo una penna di ghiandaia.

«Ecco. Questa è l’alca impenne, che l’uomo ha fatto estinguere con la sua stupidità».

Gli mostrai l’illustrazione alla luce debole e tremula della lanterna. Un uccello dalle dimensioni di un’oca, raffigurato sul bordo di una roccia scura, con le zampe tozze e i piedi grandi e palmati, il collo robusto e il becco a forma di lancia.

Simao la studiò a lungo. «E’ un uccello molto grande, signore» disse alla fine.

«E’ vero».

«Lo troveremo?»

«E’ molto improbabile. E’ troppo tardi, ormai».”

In “Il collezionista delle piccole cose” [Neri Pozza Editore, Vicenza, 2013] è ben delineato l’intreccio dei rapporti tra il protagonista, il capitano Sykes, il primo ufficiale French e gli altri due ospiti della nave: Edward Bletchey e sua cugina Clara, che al protagonista ricorda Celeste, la ragazza che aveva amato dieci anni prima.

Dotato di un buon ritmo, il romanzo illustra con notevole forza descrittiva l’inoltrarsi in uno dei luoghi più inospitali del pianeta. Ricostruendo l’atmosfera del tempo, trascina il lettore a bordo del brigantino. Il senso di incertezza sull’identità di Clara rende la storia più intrigante.

Il romanzo punta il dito contro il saccheggio indiscriminato dell’ambiente da parte dell’uomo, sulla tragedia degli animali dell’Artico: foche, trichechi, balene, orsi e uccelli, trucidati per ricavarne barili d’olio, grasso e penne.

«Ne ho parlato con Talbot, ieri sera. Lui ha l’abitudine di adattare la verità ai suoi bisogni, ma sapeva parecchie cose al riguardo. Mi ha detto che, nel secolo scorso, era tradizione che una baleniera – o forse anche un mercantile di Terranova? – andasse in cerca delle colonie di questi uccelli […] i marinai non dovevano far altro che ormeggiare vicino agli scogli su cui nidificavano, per poi ucciderli tirando loro il collo, o usando l’hakapik, un martello appuntito per abbattere le foche. Essendo creature docili e curiose, non avevano paura dell’uomo. A quanto dice Talbot, a volte era sufficiente fissare una passerella alle rocce, e loro vi salivano per mera curiosità, suppongo. Probabilmente la maggior parte di quelle bestie non avevano mai visto un essere umano, o una nave. Una volta a bordo, gli uccelli venivano attirati verso i boccaporti, dove venivano uccisi a mazzate uno dopo l’altro, in fila.» […] «Non vi stupisce? Che questi animali andassero incontro alla morte, uno dietro l’altro?» […] «Piumaggio morbido, corpi ricchi di olio, nessuna paura dell’uomo! Una combinazione alquanto sfortunata, per una creatura dell’Artico».

«Non credo che sfortuna sia l’aggettivo più adatto». […]

Il mio volume sulla fauna artica era già vecchio di decenni, e il tempo era trascorso piuttosto in fretta, per quegli uccelli. Il testo parlava chiaramente di enormi colonie di alche impenni disseminate nelle acque del Nord Atlantico e dei mari artici, dalla Norvegia alle Isole Britanniche, dall’Islanda alla costa di Terranova. […]

«Non appena si seppe della presenza dell’alca, ormai in via d’estinzione, i musei europei e americani corsero a procurarsi un esemplare» […]

«Furono cacciate, una per una, e acquistate a prezzi esorbitanti per essere imbalsamate. Sono stati i musei a provocarne l’estinzione, per la smania di possedere ciascuno il proprio esemplare»

Al di là dei contenuti ambientalisti, questo libro consente al lettore d’intraprendere un bel viaggio nelle fredde acque artiche.

 

 

 

 

 

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