Lui ci teneva all’ambiente. Conservarlo il più possibile intatto condizionava tutte le sue scelte. Era preoccupato per la catastrofe a cui andava incontro il pianeta, anzi la società umana. Avrebbe fatto di tutto per arginarla.

Inforcò la sua e-bike per andare a fare la spesa. L’aveva acquistata usufruendo del bonus bici governativo. Aveva voluto dare un contributo alla transizione verso una mobilità sostenibile. Così ora andava a fare le sue commissioni in città utilizzando la pulita energia elettrica immagazzinata nella batteria a litio. Beh, a dire il vero, lui prima in città ci andava pedalando (in modo più continuativo e salutare) su una normale bicletta a propulsione esclusivamente muscolare.

Parcheggiò la bicicletta elettrica sulla rastrelliera davanti al supermercato, chiudendola con la robusta catena – la sua vecchia bicicletta spesso non si preoccupava nemmeno di chiuderla. 

Estrasse la custodia dalla tasca. Da un po’ di tempo aveva preso l’abitudine di portare gli occhiali da lettura quando andava a fare la spesa. Prima di infilare i prodotti nel cestello voleva leggerne l’etichetta, ma spesso i caratteri erano scritti troppo piccoli. Non voleva rassegnarsi al calo della vista e, soprattutto, alla logica del consumismo. Voleva essere sicuro di quello che comprava, che ogni suo acquisto fosse compatibile con la conservazione di un pianeta abitabile.

Da un po’ di tempo su quasi tutte le etichette c’erano rivendicazioni ecologiche. Imperversavano belle (ma generiche) formulazioni, come: “rispettoso dell’ambiente”, “ecosostenibile”, “amico della natura”. La preoccupazione per l’ambiente sembrava essere dappertutto, anche se non gli era chiaro su che cosa si basassero quelle vaghe affermazioni. 

L’onnipresenza di sensibilità ecologica gli produceva un senso di smarrimento, alla fine mise nel cestello un prodotto che riportava “100% naturale”, anche se per un attimo si chiese che cosa significasse.

Poi fu la volta delle fragole, le aveva acquistate, anche se erano fuori stagione, perché l’etichetta ricordava che l’energia per scaldare le serre proveniva da fonti rinnovabili e poi per coltivarle non veniva citato l’uso di pesticidi ma quello di prodotti fitosanitari, termine senz’altro meno terrificante.

Si recò nel reparto “Igiene del corpo” per acquistare un deodorante. Vide che l’etichetta di uno indicava l’assenza di CFC. Sapeva che i CloroFloroCarburi erano i responsabili del buco dell’ozono. Ma non ne era stato vietato l’utilizzo in Unione Europea? Perché scriverlo? si chiese.  Per sicurezza,  prese quello.

Lasciato il supermercato, si recò in pescheria. Avendo letto che i molluschi sequestrano in modo del tutto sostenibile l’anidride carbonica disciolta in acqua (il carbonio è uno dei mattoni fondamentali per la sintesi del guscio), decise di acquistare delle cozze di allevamento. Gli allevatori di mitili, contrastando l’effetto serra, difendevano l’ambiente. Trascurò che nelle sue passeggiate invernali sulla riva del mare aveva constatato che le “calze” per l’allevamento delle cozze erano una frazione rilevante della plastica spiaggiata; venivano gettate in mare dagli allevatori in quanto lo smaltimento a terra era troppo costoso.

Tornato a casa, dopo avere sistemato la spesa, andò a controllare le mail al computer. Gliene era arrivata una da un’importante associazione che si occupa della difesa delle natura a cui era iscritto. La mail riguardava una campagna in difesa di una specie animale. La società industrializzata ne minacciava la sopravvivenza. Decise di aderire a quella campagna, lui ci teneva che quella specie non scomparisse dalla faccia della Terra. L’adesione comportava l’acquisto di un pelouche raffigurante quell’animale. Non aveva nessun bambino a cui regalarlo. Sarebbe finito in un armadio della sua casa insieme ad altri oggetti prodotti inutilmente.

Accese il televisore. Lo faceva prima di sistemarsi sul divano, lui non era tipo da lasciare gli elettrodomestici in stand by. Gli facevano rabbia coloro che sprecavano energia inutilmente e poi si permettevano di accusare quelli come lui di volere “tornare alla candela”.

 Il servizio di apertura del telegiornale era sul caro energia. Per l’ennesima volta veniva mostrata una bolletta. «Il costo è quadruplicato anche se i miei consumi sono rimasti gli stessi», si lamentava un cittadino. Ora il servizio inviterà i telespettatori a comportamenti più sobri, a ridurre i consumi, pensò. Si sbagliava. Il servizio proseguì con l’intervista ad un esperto che, dopo un breve elogio delle fonti rinnovabili, indicò un’altra soluzione: puntare sul nucleare “pulito”, su centrali nucleari di quarta generazione, «anche su quelle si dovrà basare la green economy» asserì l’esperto. L’intervistato tralasciò solo tre banali particolari. Primo: quelle centrali non erano ancora state inventate e non sarebbero state disponibili prima di una trentina di anni. Secondo:  l’Italia doveva ancora decidere dove sistemare le scorie radiotattive delle vecchie centrali nucleari dismesse in seguito al referendum del 1987. Terzo: nel nostro Paese, viste le proteste locali, è difficile individuare i siti dove collocare una discarica, un biodigestore, un termovalorizzatore, un rigassificatore, figuriamoci una centrale atomica!

Anche il servizio successivo riguardava le problematiche ambientali e precisamente lo scioglimento dei ghiacciai. Enormi teli venivano stesi su un ghiacciaio per contrastare l’arretramento della superficie dei ghiacci. Qualcuno aveva investito denaro pubblico per coprire le sentinelle dell’innalzamento delle temperature con una coperta artificiale. Vedi come l’uomo con misure concrete riesce a contrastare il cambiamento climatico! pensò. 

Il telegiornale proseguì. Si concluse con un servizio sulla moda. Lui non era interessato ai capi di sartoria,  portava da anni gli stessi abiti (di scarso pregio). In inverno spesso girava in tuta e nella bella stagione, come quella che stava per concludersi,  in calzoncini, t-shirt e sandali. Si soffermò sul servizio solo perchè nel sofisticato commento alla sfilata veniva sottolineato che i capi d’abbigliamento erano in poliestere riciclato. Tra le tante parole inglesi – in gran parte per lui misteriose – comprese e gli sembrarono altamente rivelatrici: brand eco-friendly. Il commentatore della sfilata concluse: «Anche le case di moda puntano sull’economia circolare!». Aveva ignorato solo un piccolo particolare: quella collezione rappresentava lo 0,035% dell’offerta complessiva del marchio. 

Il telegiornale finì. Nei canali imperversavano talk show politici, era tempo di elezioni; la campagna elettorale era in pieno svolgimento. 

Lui quando andava a votare la croce sulla scheda la metteva a favore di una lista o di un candidato sensibile ai problemi ambientali. 

ex-mattatoio

Dopo avere fatto un po’ di zapping, passò ad una televisione locale. Andava in onda un servizio (a pagamento). Un candidato alle prossime elezioni si faceva intervistare in calzoncini e t-shirt ai bordi di un torrente di montagna. Come assessore regionale alla caccia aveva fatto uscire un pessimo calendario venatorio che aveva indotto  le associazioni ambientaliste a fare ricorso al TAR regionale e la sentenza aveva dato ragione agli ambientalisti. 

Nessuna delle domande che il giornalista formulò mise il politico in difficoltà; le sue risposte mostravano una sensibilità non indifferente verso l’ambiente. Deve essersi riconvertito, pensò. Mentre il politico parlava, gli era sembrato di avere anche sentito il canto di un uccellino. Non solo ragionava come lui, quel politico, intervistato vicino a quelle acque limpide, indossava come lui calzoncini e t-shirt. Sì, è uno di noi, pensò, dargli il voto può essere una buona soluzione.

“In inglese, la nozione di greenwashing incorpora un doppio o triplo gioco di parole. Il termine è una declinazione del termine whitewashing, che in senso letterale si riferisce all’imbiancatura (una tecnica che permette di dare un aspetto “pulito” a un muro) e in senso figurato a qualsiasi processo di occultamento. Analogamente, il greenwashing consiste nel ricoprire con una vernice verde la facciata delle industrie “sporche” perché inquinano, nel ricoprire i loro danni ambientali. Ma questo neologismo richiama anche un’altra nozione, quella di brainwashing, cioè lavaggio del cervello, comunemente usata per indicare l’obiettivo della propaganda, soprattutto pubblicitaria, di influenzare le opinioni di qualcuno fino a fargli pensare qualcosa di diverso da ciò che pensava, come se si fosse riusciti a “fare piazza pulita” delle proprie idee, a “pulire il cervello”. Il greenwashing non consiste solo nel coprire e nascondere alcune realtà spiacevoli, ma indica anche una forma di manipolazione mentale che mira, come molte forme di “pubbliche relazioni”, a produrre adesione e consenso.”

[da “Greenwashing. Manuel pour dépolluer le débat public”, Paris, Seuil (collana Anthropocène), 2022]

Sitografia:

Greenwashing, la grande rivoluzione passiva. Dalla riverniciatura verde della facciata al blocco dell’avvenire: forme e funzioni del greenwashing. 

Traduzione  a cura di Luigi Piccioni dell’introduzione e dell’indice di Greenwashing. Manuel pour dépolluer le débat public, Paris, Seuil (collana Anthropocène), 2022. 

Numero 45 di “Altronovecento. ambiente tecnica società”, rivista fondata da Giorgio Nebbia ed edita dalla Fondazione Luigi Micheletti.

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