La mostra retrospettiva delle opere di Emilio Furlani, “Furlani tra espressione e concetto” organizzata da Carlo Bruscia e Dante Piermattei per la Fondazione Carifano, e presentata dal critico Riccardo Tonti Bandini, allestita alla Diana Gallery del palazzo Bracci Pagani di Fano, non è soltanto un omaggio e un ricordo dedicato all’artista fanese. Credo che sia soprattutto un motivo di riflessione. Non tanto sulla storia dell’arte che ci ostiniamo a chiamare contemporanea e che è sovrastata da mode e valutazioni desolatamente teorizzanti e desolatamente povere di contenuto artistico, quanto su come un pittore come Furlani possa avere sentito su di sé il peso disorientante di una società dello spettacolo (e del commercio) che non lasciava spazi, se non marginali, ad un artista che cercava il proprio stile senza compromessi.
Furlani non era periferico. Sapeva quello che si stava facendo nell’arte, visitava mostre, aveva contatti con altri artisti, anche quelli che avevano portato concetti completamente diversi (vedi Antonio Rasile). La sua scelta, dopo un periodo iniziale romano nel quale aveva subito il clima degli anni sessanta e settanta, è stata una scelta consapevole, cioè una valutazione onesta delle proprie qualità. Tra l’altro, condivisa, ad esempio in letteratura, con quello che è noto come postmoderno. Non saprei dire quanto consapevolmente postmoderno sia stato Furlani, ma certo i suoi quadri di fine anni settanta, ottanta e novanta ce lo mostrano in pieno postmodernismo. Un ritorno alla pittura, con un elegante e istintivo gusto del colore, con una sensibilissima percezione del superfluo, ad esempio la libreria che appare alle spalle di Luciano Anselmi nel suo magnifico ritratto o quelle sedie all’aperto del caffè Centrale o quei tavoli che scompaiono in una natura morta: restano disegnati e in ombra. C’è un filtro culturale, narrativo e poetico, che produce i punti di vista, le allusioni, spesso l’ironia. Nella stupenda serie “Spiaggia libera” le immagini di grande sensualità vengono rifratte e come scomposte in una fantasmagoria di colori freddi e caldi, quasi a rammentarci l’illusorietà delle nostre visioni e perfino dei sentimenti.
Il postmoderno si nutre inevitabilmente di citazioni, per recuperare quello che le avanguardie avevano smantellato e disprezzato, e non si deve dimenticare che Furlani era un intellettuale con una grande memoria visiva, quindi era naturale per lui utilizzarle: il puntinismo, l’assemblaggio, il collage. Tuttavia nel suo percorso artistico sono momenti transitori, più legati ai periodi bui della sua psiche, quando la bellezza dell’atto stesso della pittura non riusciva a ritrovare lo stato di grazia.
E infine il tempo. Bisognerebbe rileggere quello che ha scritto Roland Barthes sulla fotografia (La camera chiara 1980). Nelle opere di Furlani viene rappresentato l’attimo emotivo che ha colpito l’artista, per questo a volte si serve di fotografie, ma si percepisce anche quanto l’attimo sia transitorio, a volte addirittura frammentato e sul punto di dissolversi, istituendo comunque un racconto o un principio di racconto che ha un prima e un dopo e che l’artista propone come riflessione sul tempo. Particolarmente toccante la fugacità dei momenti felici.
Il suo è anche uno sguardo antropologico. Certa gestualità rappresentata nelle tele coglie la vita contemporanea nelle sue occasioni di relazione e a volte è particolarmente cruda, altre volte satirica. Ovviamente questo accade anche nelle nature morte, le sue sembrano più vicine all’espressione inglese “still life”, vita immobile, dove il trascorrere del tempo viene affidato a una tovaglia piegata, un’ombra che si addensa in un angolo dell’immagine oppure alle nuvole che scorrono su uno sfondo collinare. Gerard Genette parlava di “vertigine immobile” e per Furlani potrebbe funzionare benissimo se la poniamo in aperto contrasto alla velocità e ubiquità contemporanee, che lui provava disperatamente e ironicamente e desolatamente a fermare.
La mostra resterà aperta fino al 1 giugno 2025.


