Un uomo a braccia tese

sparisce

     dietro l’ombra di una nave…

È la linea azzurra del mare

il vero orizzonte dentro di noi:

riconoscere chi siamo

è una bellezza che ci appartiene.

(Tu non invecchiare affogato dalle domande,

non buttarti in un mare di niente).

(14 agosto 2019)

*

Mi sono perduto

senza capire il gesto.

Mari muri amari

di esuli e relitti.

L’eterna domanda senza risposta…

in un incrocio di attimi e sangue.

Voglio tessere un abito nuovo

sulla pelle del mondo.

(luglio-agosto 2019)

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1 Comment

  1. Mi sono piaciute molto entrambe le poesie, forse più la prima. A una prima lettura avevo interpretato quelle “braccia tese” del v. 1 come una ricerca, una tensione verso una meta (testimoniata anche dalla nave, nominata al v. 3), e il mare, quel “mare di niente”, come una cornucopia di domande e dubbi, e anche come annullamento del singolo individuo (“il vero orizzonte dentro di noi”, v. 5). L’uomo che cade in mare abbandona la ricerca della verità, restando all’ombra della nave, e annega tra le incertezze, annullando la propria ricerca e la propria umanità (il “riconoscere chi siamo”, v. 6). Poi mi ha raccontato il contesto socio-politico che sta alla base della composizione delle poesie, ed esso dà adito ad un’altra interpretazione, forse su un piano più realistico e meno esistenzialistico: la tremenda situazione che vivono i migranti che vedono perdere la vita quotidianamente, affogati in un “mare di niente” che annulla la loro persona conducendoli alla morte (forse in tal caso è questo il riferimento all’uomo “a braccia tese” che “sparisce / all’ombra di una nave…”, vv. 1-3). Comunque sia, l’impiego di una metafora marinara risulta particolarmente congeniale alla rappresentazione della condizione esistenziale di qualsiasi uomo, sbattuto dalle onde della vita, che corre il rischio impercettibile di perdersi, come emerge nella seconda poesia. Mi sembra molto interessante battere l’accento della mia riflessione sui versi “Mari muri amari / di esuli e relitti.” (vv. 3-4) – forse quelli che ho maggiormente apprezzato – ed in particolare sulla parola “esuli”: anche pensando al termine greco per indicare questa condizione (“φυγάς”), esso rimanda al verbo “φεύγω”, che ha il duplice significato intransitivo di “fuggire” e transitivo di “esiliare”; entrambe le accezioni che può assumere sono indici di una condizione terribile, quella di un uomo che è privo di una patria – e Aristotele ricorda tra le prime pagine della sua “Poetica” anche la sola pericolosità, oltre che la carica negativa, di un individuo “αφρήτωρ”, biasimato dal buon vecchio Omero, in quanto “è maggiormente desideroso di far guerra l’uomo isolato come una pedina al gioco dei dadi”. La condizione di esule si presta ancora una volta ad un duplice piano interpretativo, risultando conforme sia alla situazione dei migranti sia alla condizione esistenziale del poeta. L’immagine dei muri di esuli risulta veramente straziante, se si considera la fonte di ispirazione della poesia , ossia la mattanza dei migranti nelle nostre acque. Anche nella seconda poesia riecheggia nelle orecchie del lettore il tema della ricerca (“l’eterna domanda senza risposta…”, v. 5), lasciata in sospeso dallo smarrimento con cui si apre il componimento, rimarcato dalla presenza dei tre puntini di sospensione alla fine del verso 5. Malgrado entrambe le poesie siano attraversate da un tono disilluso (soprattutto la prima), nella seconda una speranza sembrerebbe fare capolino dalle onde, scavalcando quei “muri amari” per “tessere un abito nuovo / sulla pelle del mondo” (vv. 7-8): malgrado l’iniziale smarrimento, il poeta si congeda attraverso una forte dichiarazione, quasi di riscatto: costruire una nuova vita.
    La condizione di esule e naufrago e la rappresentazione del mare non possono non richiamare “L’infinito” di Leopardi, anche se in questo contesto si evince una concezione di mare di una differenza, direi, “abissale”. Certamente in entrambi i contesti il mare si configura come un ambiente di annullamento della persona raziocinante, in quanto nel poeta recanatese la sospensione del “νους” e l’abbraccio all’esperienza sensibile costituiva una tappa fondamentale nel conseguimento del piacere, e nella prima poesia l’immagine che viene fornita è di annullamento non solo spirituale, ma anche fisico (la morte). Tuttavia, mentre per Leopardi è “dolce” il “naufragar” in un mare che assurge a metafora di vaghezza e indefinitezza, annullamento del dolore (in una prospettiva prettamente materialistica e sensistica), in queste poesie l’ambiente marino è percepito come assolutamente ostile, come baratro di morte e annichilimento di umanità (intesa anche come il continuo porsi domande sulla vita, una prerogativa dell’essere umano, qui sommersa dai flutti marini).
    Sotto l’aspetto grafico ho reputato una trovata molto interessante e ben studiata l’impiego, costante in particolar modo nella prima poesia, degli spazi bianchi, a mio parere indicativo (a partire dalla lezione ungarettiana) nella rappresentazione della condizione di annullamento, fondamento su cui si innestano entrambi i testi.

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