Leggendo il catalogo della mostra “Anselm Kiefer al Palazzo Ducale di Venezia: 26 marzo 29 ottobre 2022” mi accorgo di aver vissuto o almeno sfiorato quello che Massimo Donà scrive e illustra in maniera colta su la relazione intellettuale tra l’artista tedesco e il filosofo Andrea Emo, il quale ha ispirato il racconto dello strabiliante “Venice Cycle” di Kiefer.
“Questi scritti quando verranno bruciati, daranno finalmente un po’ di luce” (Andrea Emo).
Proprio il senso di quell’esperienza mi ha assistito e sorvegliato da un costante ineluttabile perdimento, lo stesso perdimento, paradosso, che aiuta quell’esperienza a ricordarmela.
Nel porre i segni, narrando, sul foglio Fabriano, faccio un monumento al reale. Indago sulle forme e i confini dell’impaginazione.
Ho avuto la necessità di usare china, pastelli, matite e carbone per tirare fuori un disgusto interno, avevo bisogno di nero e scuro. Non bastava, quel nero sul foglio, non bastava, allora dovevo rompere e dissacrare. Inconsapevolmente allora quelle pennellate di acqua nera mi ridavano pace e trasportavano le forme e i confini del foglio verso l’infinito.
E’ stato un passaggio lungo quello dei Pennini, cominciato quando pensavo a una cartella di stampe in calcografia. Le sedute al tavolo da disegno erano giornaliere, una questione diversa dalla pittura. Disegnavo come uno scrivano e un artigiano del segno.
Quella routine mi riappacificava con la mancanza di “spinta” emotiva necessaria per affrontare il bianco della tela da dipingere.
Quell’approccio, come scrissi nel testo (qui sotto) che presentava quei lavori, ebbe la carezza della nostalgia di un’epoca passata che riaffiorava in quel preciso momento nel quale mi trovavo, disadorno e in conflitto con il mio stato d’animo.
Fu la felicità creativa che tanti anni prima avevo provato nel Laboratorio di Calco, dentro il torricino del Palazzo Ducale di Urbino, quando frequentavo la Scuola del Libro, a trasportarmi in quell’atmosfera dei pennini.
“ Sono su quella finestra che mi ha lanciato con lo sguardo verso il paesaggio. Immaginavo di volare come l’aquila, registrando tutto il sotto senza dimenticare l’orizzonte. In quello spazio dove il reale si frantumava, imparavo a conoscermi.
I profumi delle vernici del laboratorio si mescolavano al respiro dell’aria.
Il bianco e nero delle righe calcografiche incominciavano a stamparsi nella mia memoria.
Le linee e le bruciature provocate dall’acido, stampate sul foglio umido, diventavano i segni di quel paesaggio, stravolgendolo in un luogo senza tempo e astratto. I bianchi e neri, gli spazi sulla carta Rosaspina erano come la scrittura e le visioni dei poeti e degli artisti di quella terra.
Quel territorio è penetrato dentro di me.
Me ne sono accorto quando molto tempo dopo, lontano da lì, dove il sole scalda la pelle e il sudore scivola senza odore sul corpo e le voci dei popoli profumate dei fiori di arancio ti accarezzano le guance. Cipro.
Il verde è uno scherzo che non fai in tempo a rincorrerlo e a ricordartelo, la terra con il grano che sembra all’infinito raccolto. Il mare capace di prendersi il cielo senza disturbare nessuno e viceversa, secondo l’umore di Afrodite.
Lì in quel posto, senza richiesta, le linee, i bianchi e i neri, gli odori degli inchiostri, in un pomeriggio di dubbio, sono venute come un padre a trovarmi velate di protezione.
Così inizia “A Pennino”:
La scrittura, fatta di linee, man mano che la distribuivo sul foglio Fabriano mi riportava a quel volo attraverso la finestra del laboratorio di Calcografia del Palazzo Ducale di Urbino, dove la realtà si frantumava in spazi e territori solarizzati come in un processo fotografico. La ripetitiva segnatura del pennino bagnato nell’inchiostro di china sul bianco della carta era la traccia di un colloquio, di un nuovo “processo creativo”. La cadenza dei segni vicini, vicini, era il tempo, il mio tempo venuto a fischiarmi nelle orecchie.
Quella però è un’altra storia.
Adesso siamo qui.
Il nero, il nero nella testa. Il disagio, l’incapacità’ di collocare i bianchi e neri dentro l’emozione con cui mi esprimo nella pittura. Lo scuro e la sensazione di essere inabile a interpretare tutte le sfighe del mondo. Oppresso senza cogliere una via di uscita e di espressione. Masse nere, nuvole carboniche piene di acqua. Linee di solchi profondi polverosi senza direzione e frontiere. Territori aspri nel caso siano terra, eleganti senza senso. Territori ridefiniti con un’inutile pazienza che si scontra con l’esigenza di coprire tutto con un pesante passaggio di carbone doloroso. Mari diluiti, terremotati e intorbiditi dall’inchiostro di china sopra linee depositate nelle profondità abissali. Paesaggio dal conforto velenoso, fragile senza una possibile salvezza che fa a cazzotti con la sedicente poesia allo sguardo.
Nero più di bianco. “ (testo scritto in occasione della mostra “Beyond borders”)
Passato e presente che s’intercambiano.
“A volte accade che vi sia una convergenza tra momenti passati e presenti, e mentre si fondano si vive un po’ quell’immobilità che c’è nel cavo di un’onda che sta per infrangersi. Momenti del genere, che hanno origine nel passato ma rappresentano di fondo qualcosa di più del passato, appartengono tanto al presente quanto al passato, e ciò che generano è della massima importanza” (Anselm Kiefer)
“L’Arte e la Vita sono due cose distinte” afferma ancora l’artista tedesco.
Poco dopo aver visitato la mostra di Venezia, qui nel nostro territorio ho potuto ammirare le magnifiche Acquetinte di Emilio Vedova esposte nella casa museo di Osvaldo Licini a Monte Vidon Corrado, 17 luglio 2022 – 08 gennaio 2023, opere sincrone e collaterali alla sua pittura.
La Fondazione Vedova nel 2011 aveva ospitato la mostra “Salt of Earth” di Kiefer, e Vedova molto prima nei primi anni sessanta per due anni soggiornò a Berlino producendo, non senza discordi pareri della critica i famosi “Plurimi”.
Un grande artista Vedova che come Kiefer non si è preoccupato di fare la storia.
Ho riflettuto appunto sulla sincronicità delle sue opere incisorie. Anche io come calcografo avrei potuto affrontare la stampa d’arte con la stessa dinamica usata nella pittura.
Le Acquetinte esposte, infatti, sono delle opere pittoriche realizzate da Vedova sulla lastra di zinco nella tecnica calcografica.
In passato, anni novanta, ho provato a percorrere quella strada. Ho realizzato una cartella con tre distinti disegni e tecniche di laboratorio. Solo l’ultima di quelle era nella stessa modalità creativa di quel mio momento pittorico.
In quell’esperienza, la nostalgia mi aveva “costretto” a un preambolo narrativo.
La vita presuppone questi scarti, la nostalgia è uno di questi.
L’arte invece è un confronto-scontro con il reale che necessita di libertà.
La Narrazione avviene dopo, quando l’opera lascia lo studio, non mentre si fa.
“L’Arte iconoclasta che produce distruggendo ” ancora “che comporta quindi un grande sforzo spirituale, in ogni caso necessario a sopportare tale aporia. Ogni volta, infatti, la natura delle cose finisce per produrre nuove forme proprio distruggendo quelle che ci sono più familiari” A.Kiefer.
C’è voluto tempo affinché quei due miei differenti approcci all’arte, disegnare a china sulla carta e dipingere a colori sulla tela, si compenetrassero nel lavoro prodotto. Non so, ora, alla fine se fosse stato necessario sforzarmi, ancora oggi considero quelle tele un insuccesso formale.
A distanza di tempo gli ultimi disegni, da soli, si sono avvicinati al modo gestuale con cui affronto la tela bianca, così che i fogli Fabriano, disegnati con china, pastelli e carbone hanno preso luce tramite dinamiche pennellate colorate e acquose.
Eppure in quei disegni c’è lo sforzo di fare arte, sforzo anche contaminato dall’oppressione di non riuscire a trovare qualcosa. Le forme disegnate sul foglio seppur negate in finitura da pesanti pennellate di acqua colorata non mi hanno appacificato con il risultato. Quel lavoro, fotografato, ora è in cartella sperando in una decantazione dalla titubanza con la quale è nato.
Ad arricchire la titubanza, anche l’incapacità di dare una mia voce, come artista, a quegli avvenimenti complessi e tragici della vita attuale. Ho avuto il dubbio di avere perso la contemporaneità, la quale è sempre stata un mio desiderio.
Due precisi disagi in cui, frantumato, non ho avuto la forza giusta per affrontare il bianco di un foglio o di una tela ma neanche la capacità di trovare un senso per arrivarci.
(da qui a poco mi confronterò con la tela vedremo cosa succederà)
“La vita è diversa dall’arte” scrive Anselm Kiefer nel libro “L’arte sopravvivrà alle sue rovine” e poi ancora “Ci impegneremo a distinguere l’arte dalla vita o, per l’esattezza, faremo vedere come essa si differenzi dalla vita”.
Le letture dei vari interventi scritti sul catalogo della mostra al Palazzo Ducale e poi il libro dell’artista tedesco mi stanno aiutando a capirmi tra questi due oggetti vita-arte, arte-vita.
Un contesto nel quale, per abitudine, rifletto sulla mia “vita artistica” che si appiglia alla boa della poesia in mezzo all’immenso grande mare profondo, complesso, pericoloso della nostra esperienza e anche con tanto affanno sull’attualità dei miei segni.
Se nel processo creativo, specialmente quello pittorico, sperimento la sensazione di vuoto, del fare e rifare, di scontro-incontro, di libertà con l’opera in esecuzione, nella fase conclusiva però non esulo dal diventare preoccupato cercando la contestualità del tempo nel lavoro finito.
E’ vero che la mia esperienza artistica in tutti questi anni si è ritagliata dei piccoli spazi, preziosi e produttivi ma sempre piccoli e brevi rispetto alla vita reale. Certamente ho imparato alcune cose ma tante altre come lo studio è stato imperativamente prevaricato.
Principalmente mi sono abituato, auto educato a raffrontarmi con la storia dell’arte leggendo attentamente le date delle opere e il tempo degli artisti.
Come prerogativa del mio impegno artistico quindi avevo messo il tempo o meglio la sincronia del mio lavoro nei confronti della storia.
Una visione limitata la mia ne sono convinto perché impregnata da ideali dai quali spesso ho cercato di attingere e tentato di dare un racconto al mio lavoro del quale, in massima parte, non aveva mai avuto bisogno.
“Ci impegneremo a distinguere l‘arte dalla vita o per l’esattezza faremo vedere come essa si differenzi dalla vita”
Ripeto queste parole che Anselm Kiefer, in alcune lezioni tenute al Collège de France di Parigi ha detto agli studenti dei corsi, perché mi hanno colpito ed emozionato. Hanno dato senso alla meraviglia e magnificenza che ho sentito e visto nella visita al Palazzo Ducale di Venezia del “Venice Cycle”, anche innescato una serie di interrogativi, sul mio rapporto con l’Arte e la Vita, i quali ora mi danno l’energia e la curiosità dello studio.
I testi di Anselm Kiefer sono estrapolati dal suo libro “L’arte sopravvivrà alle sue rovine” un ciclo di otto lezioni tenute al Collège de France di Parigi tra il 2010 e 2011. Feltrinelli 2020
Agosto-settembre 2022