I critici e gli osservatori più attenti hanno ormai inquadrato da tempo le caratteristiche peculiari della
nostra epoca. Ma tra questi non tutti hanno messo a fuoco con intelligenza e acume il salto prodotto dai
vincitori della terza guerra mondiale – la guerra fredda – nel ricondurre il mondo alle leggi globali del
liberalismo, o liberismo che dir si voglia. Chi è ancora attardato a contemplare le macerie fumanti del
compromesso socialdemocratico novecentesco intravede un ritorno nudo e crudo del laissez faire, cioè la
scomparsa di qualunque funzione regolatrice dello stato confinato dai vincitori, a detta di costoro, al
ruolo di spettatore della mano invisibile del mercato, la sola bilancia equilibratrice delle relazioni umane.
Saranno probabilmente i traumi della disfatta epocale dei “trenta gloriosi” (1945-1975) ad ottenebrare le
categorie analitiche dei nostalgici del welfare state ormai incapaci di vedere che il salto prodotto negli
ultimi 30 anni è assai più radicale del ritorno nudo e crudo a John Locke e ad Adam Smith. Viviamo
nell’epoca in cui il liberalismo, o liberismo che dir si voglia, ha subito un’evoluzione spietata e
totalizzante che potremmo tranquillamente definire totalitaria. L’ordoliberismo – la forma attuale del
liberalismo in Occidente – non presuppone più, infatti, uno stato come inerte e passivo spettatore delle
vicende umane governate dall’economia riservando per sé solo alcuni compiti in stretta relazione con i
diritti – un tempo definiti universali – come l’istruzione e la salute. No, l’ordoliberismo dissolve ogni
funzione pubblica sottomettendo lo stato ad una funzione al servizio dell’economia di mercato come
strumento (e snodo) strategico della produzione di valore. Scuole, ospedali e, in prospettiva, anche
carceri, aree demaniali, etc. niente può più sfuggire alla legge del profitto. L’impresa privata, l’azienda,
quasi come categoria dello spirito, tutto pervade e riconduce a sé come cifra e unità di misura delle
relazioni tra esseri umani. “La società non esiste, esistono gli individui” (M. Thatcher) in quanto
“imprenditori di sé stessi” obbligati ad estrarre valore dalla propria anima e ad immetterla velocemente
sul mercato. Non sono più le forme istituzionali della rappresentanza e del governo a presidiare quello che
un tempo era definito l’interesse generale. E’ il mercato che vede e provvede e che penserà, dopo aver
lautamente retribuito (con utili “adeguati”) azionisti e investitori, a distribuire qualche mancia, con
rigorosi criteri meritocratici, agli sfigati rimasti esclusi dal circuito dei vincenti. Ma tutto ciò ha ancora
una parvenza di relazione con la cosiddetta democrazia? Può ancora dirsi democratica una società fondata
sulla regola assoluta e totalizzante del profitto dove è lo stesso stato ad essere sussunto e “ingoiato” come
elemento accessorio e strumentale al dominio incontrastato e indiscusso dell’impresa? Se tutto alla fine
risulta essere conseguenza di decisioni assunte da poteri privati insindacabili – autoritari per definizione –
che differenza c’è tra le cosiddette “autocrazie orientali” e le aperte ed evolute “democrazie occidentali”?
Come fanno ad avere ancora un minimo di attendibilità e credibilità le elezioni generali, il momento
cosiddetto più alto in cui, ad intervalli regolari, una democrazia liberale – come ammirandosi con vanità
davanti a uno specchio – presume di essere modello universale per l’intero genere umano? Fagocitando
pure il momento elettorale nelle leggi del mercato il liberalismo della nostra epoca – l’ordoliberismo –
riduce ad una insignificanza senza appello il cosiddetto popolo sovrano e genera il vuoto, il nulla delle
cosiddette campagne elettorali condotte con modalità “pubblicitarie” esasperate e ossessive. Ne scaturisce
una ricerca mercantile del consenso che si consegna, ovviamente, non più ad una libera competizione di
idee ma semplicemente ad una contrapposizione chiassosa tra diverse strategie di marketing dove i singoli
broker, urlando come piazzisti di borsa, cercano di imporre la supremazia di un marchio aziendale su tutti
gli altri. E allora, direbbe Platone, il tutto finisce per confluire nel tempo della tirannide.