Molti altri miei connazionali risiedono alle Canarie oppure vi passano le vacanze, quindi non sarò certamente il primo a cui sarà capitato di essere oggetto dei soliti luoghi comuni sugli italiani, né sarò l’ultimo.

Dalla maggior parte di questi stereotipi non vale la pena difendersi, tanto risultano innocui e   persino divertenti. Per esempio quando ci viene detto che a Napoli suonano tutti il mandolino, che siamo tutti sciupafemmine, e poi tutti mammoni, cantanti, scansafatiche, bevitori di caffè, divoratori di pizze e di spaghetti.

Quando invece sentiamo dire che siamo tutti mafiosi la cosa non ci fa sorridere affatto, perché in quanto persone oneste e rispettose delle leggi, come del resto la stragrande maggioranza degli italiani, sappiamo meglio di chiunque che quello della mafia, purtroppo, rimane tuttora un grave problema del nostro Bel Paese, e pertanto è appunto quel pronome indefinito “tutti” che stona.

Dire “tutti” in questo caso risulta fuori luogo e irriverente, in primis verso le migliaia di nostri conterranei che sono stati assassinati dalla mafia: comuni cittadini, forze dell’ordine, giornalisti, magistrati come i palermitani Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Poi verso chi, oggi non diversamente da ieri, continua a mettere in gioco la propria vita, come lo scrittore napoletano Roberto Saviano, che vive sotto scorta dal 2006, anno di pubblicazione del suo romanzo d’esordio “Gomorra”.

“Palermo non mi piaceva, per questo ho imparato ad amarla. Perché il vero amore consiste nell’amare ciò che non ci piace per poterlo cambiare.” (Borsellino)

“Chi tace e chi piega la testa muore ogni giorno che lo fa, chi parla e chi cammina a testa alta muore una volta sola.” (Falcone)

“Raccontare come stanno le cose vuol dire non subirle”. (Saviano)

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