La giornata curata da Aldo Tenedini, dedicata a Peter Kammerer, organizzata dalla Mediateca Montanari di Fano. Due relazioni

peter, 11.3.2023.

Credo di essere un po’ il decano in questa sala dal momento che sono quasi cinquant’anni che conosco Peter Kammerer. Diventato col tempo suo amico mi sono chiesto qualche volta da dove nascesse quella fascinazione esercitata su quello studente, su quel piccolo allievo di provincia (che ero io) da parte di quel docente tedesco con l’aria da cosmopolita proveniente dal Baden-Wuttenberg. Penso che, fin dall’inizio, tutto ciò dipendesse dalla plateale sconfessione praticata da Peter di due paradigmi connaturati alla nostra epoca, a questa pseudo-modernità soffocante (e per me insopportabile): lo specialismo settoriale di natura tecnica (spesso assai poco scientifica) e l’ossessione per l’uomo solo al comando. Perché, in realtà, da un lato Peter ha passato una vita ad abbattere muri disciplinari (ed epistemologici) non limitati alle barriere esistenti tra la cultura tedesca e quella italiana. Il Baden di Peter è assai più vicino a Vienna rispetto a Berlino e questo conta qualcosa. Mi torna in mente quanto Stefan Zweig, ne Il mondo di ieri, affermava di non perdonare a Hitler: l’avere trasformato la sua città cosmopolita e aperta al mondo (appunto, Vienna) in un aggregato urbano provinciale e nazionalista. E dall’altro pur essendo stato, il suo, un contributo determinante in tutti gli ambiti in cui ha operato con la parola, con la ricerca e con la scrittura, Peter si è sempre sentito parte di un contesto, quasi – con parole provocatoriamente novecentesche – “militante” di un “collettivo di lavoro”. E allora penso ai tre intrecci in cui le nostre esistenze sono entrate maggiormente in comunicazione, lì dove è maturata la nostra amicizia. Penso all’istituto urbinate di filosofia “Arturo Massolo” descritto perfettamente dalle parole di Emilia Giancotti richiamate da Marco Ferri poco fa; una docente, Emilia, che oltre ad essere una qualificatissima studiosa di Spinoza era anche donna di fascino non comune, sempre aperta e disponibile al confronto con i suoi allievi un po’ intimiditi dalla sua figura. Così poteva accadere che in quell’istituto dove non c’erano “primi della classe” venisse l’umile Paolo Cinanni, responsabile della FILEF (Federazione italiana lavoratori emigranti e famiglie) a tenere seminari aperti dove le barriere tra docenti ed allievi non esistevano più e tutti finivano per acquisire un sapere altrove inimmaginabile. Penso, un po’ più tardi, alla significativa esperienza del Circolo Gramsci e della sua rivista Microcosmo con il suo approccio, il suo punto di vista, interdisciplinare sulla città. Non dimenticherò mai il vivace scambio di battute tra Peter e Mario Tronti venuto per il Gramsci a presentare il suo volume Con le spalle al futuro nel marzo 1992. Al sostegno dato da Tronti alle tesi di Carl Schmitt contro quelle di Hans Kelsen, Peter ironicamente replicò affermando di non capire questa enorme suggestione esercitata su alcuni autori della sinistra italiana da parte di alcuni autori della destra tedesca. E, infine, penso a Monte Giove e all’esperienza di Itinerari ed Incontri promossa da quella organizzatrice culturale fuori dal comune che è stata la compianta Lorenza Carboni dove attorno alle figure straordinarie di Benedetto Calati, monaco camaldolese, e di Rossana Rossanda si aprì per una stagione non breve un confronto autentico, senza reticenze, tra cristiani e marxisti che apriva prospettive di ricerca inesplorate per i due mondi valide a tutt’oggi. Basti pensare che alla morte di Calati il manifesto dedicò un’intera pagina di riflessioni a quegli incontri e che solo poco tempo fa l’esperienza di Monte Giove è stata di nuovo evocata da Tronti in chiusura del suo “testamento spirituale” – La saggezza della lotta – uscito alla fine del 2021.

Un ultimo pensiero alla compagna di una vita, a Graziella Galvani scomparsa pochi mesi fa che tutti noi – e Peter su tutti – avremmo voluto che oggi fosse qui. Una donna, un’intellettuale, un’artista di grandissimo valore che avrebbe reso questa serata anche più significativa e, magari, più divertente.

(marco savelli)

Peter
Gehen, reden, ruhen im Schatten hoher Bäume : camminare, parlare, riposare all’ombra
degli alberi più alti, questo il titolo del libro, splendido per i materiali e i documenti che
contiene, uscito per i 70 anni di Peter. Mentre lo sfogliavo, una frase mi ha colpito,
dell’indimenticabile Emilia Giancotti, studiosa di Spinoza: “ L’Istituto di filosofia di
Urbino era nato e aveva continuato a esistere come organismo atipico nel panorama
dell’università italiana, avendo voluto realizzare l’unione di impegno didattico
istituzionale e impegno politico nel senso più ampio del termine. Si era pertanto aperto
all’esterno e alla collaborazione, oltre che di docenti e per iniziative accademiche, anche
di uomini di cultura, di teatro, di politici, artisti…” . Un mondo perduto.
Peter ha mantenuto nel tempo quell’impronta, quella direzione di ricerca che attraversa
territori apparentemente non comunicanti: filosofia, storia, economia, poesia,
sociologia… in realtà non esistono confini, o non dovrebbero essere così accademici, o
come i confini su una carta geografica. Lui sceglierebbe quella fisica.
Rilegge Karl Polanyi, Pasolini, Ivan Illich, Heiner Müller, San Francesco e Karl Marx,
anche David Graeber. Peter non insegna, lui fa le cose, e in una società diventata
rigidamente conformista e opportunistica, lui è un testimone e un interprete che sembra
provenire direttamente dagli anni settanta, più precisamente dall’Istituto di filosofia di
Urbino degli anni settanta. Lui è un viaggiatore nel tempo.
In realtà, è venuto a Fano in bicicletta da Urbino per chiudere, con la sua conferenza su
Che Guevara, il ciclo sull’utopia aperto da Pino Paioni, il semiologo, e proseguito da don
Italo Mancini. Era il 1988. Da allora non ci siamo mai persi di vista.
Non ama queste cerimonie, quindi finisco qui.
Peter, pensa che siamo sotto un albero alto, in una pausa del tempo.

(marco ferri)

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