Fu crudele l’agosto dell’anno 1994: in quel mese si spensero Paolo Volponi (all’Ospedale di Torrette di Ancona, il giorno 23) e Franco Scataglini, il 28, a Numana, di notte. La luce lontana e vicinissima della sua morte è ancora densa di brividi e di attese e non riesco a parlarne con il distacco che il tempo dovrebbe aver steso lungo gli anni facendo di quel dolore un’interiore sentiero che rende trasparente lo sguardo della mente e lento il battito del cuore. Così non è e non sarà mai. La Via Montealbano, a Numana, sbocca nel piccolo, composto cimitero del paese, una collinetta di cipressi che guarda il mare. Oltre il cancello, a destra, la tomba di Franco Scataglini, un contorno di sassi cariati presi da una spiaggia con altri, piccoli e lisci (“cocheti”), e tre, dipinti – e ormai impalliditi – chissà da chi, deposti, con anonima ed amorosa cura, sull’erba della terra. Il nome e il cognome sono stati scritti modellando un filo di ferro. Franco è sepolto lì (“[…] ossi e cinigia”) dall’agosto di diciotto anni fa quando l’accompagnammo, in un pomeriggio caldissimo e luminoso, dopo che aveva cessato di vivere, nella notte di domenica 28, nella casa di via Carducci dove trascorreva l’estate con la moglie Rosellina. La morte di un poeta è la morte di una delle voci del mondo che non si ripeteranno mai più. L’eredità è la scrittura, la forma intatta e perdurante dei versi scolpiti come incisioni sulla pietra bianca della pagina, dono e misura di un’attenzione assoluta, di un’assoluta dedizione che abita nei suoi libri irreperibili, eccezion fatta per La Rosa (Einaudi,1992) e che si spera vedano la luce nel corso del prossimo anno. Sulla fine di luglio del ’94, in un lungo pomeriggio che si fece sera inoltrata, al Cònero, seduti sulla terrazza di quell’Albergo, parlammo molto del libro appena chiuso (El Sol che Mondadori pubblicherà, nella collezione de “Lo Specchio”, nel 1995), del suo essere riuscito a riprendere il bandolo dell’ispirazione e di aver dato forma estrema e limpidissima – in una lingua assoluta e piana – all’universo dei suoi temi e alla trama del suo mondo, concentrando, in quelle pagine, l’intero percorso di una fra le più complesse e definite poetiche del secondo Novecento. Mi capita sovente di viaggiare per i luoghi della poesia di Franco tentando di disegnare una geografia dei suoi versi, camminando dal Guasco in giù, per limitarmi alla città, scendendo via Pizzecolli dove aveva lo studio, al numero undici, fino agli anni ‘82-’83 e sentendo, in quelle strade, in quelle anse (“[…] conca de vechi/muri de cità scura”) tutto il peso del tempo e della solitudine, la ferita della perdita, la verità del presente con il senso intimo e profondo di un radicamento nel cuore di Ancona, “nodo” come la poesia, solida e della stessa durezza minerale delle pietre di S.Ciriaco. Sempre più prossimi a noi l’antico e il contemporaneo per eccellenza di stile e di temi fusi in una parola sapiente e colta, nata dal trauma di una condizione umana e storica, dall’effrazione, dalla diversità e dal margine esistenziali e di classe (orti, verzieri, rive, fossati, luoghi fuori mano), specola da cui guardare per cogliere, del mondo, ogni frammento sul punto massimo dell’esclusione e della esclusività. E’ un’opera, la sua, cresciuta all’interno della consapevolezza d’essere scarto minimo rispetto alla lingua italiana e però tutta compiuta e composta nel suo disegno estremo che coniuga deiezione, perdita, privazione, sacrificio, buio (il labirinto, il carcere, il mattatoio) con la luce riscattata della bellezza e dell’armonia (il paradiso, il giardino, la rosa), lingua di chi non ha mai avuto voce, confermando l’etimo e l’etica di quella che egli stesso battezzava come “la passione splendente” nel suo primo libro del 1973, E per un frutto piace tutto un orto.

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