L’ultimo libro di poesie di Umberto Piersanti, uscito da Marcos y Marcos nel febbraio 2025, L’isola tra le selve, si presenta come una scelta molto selezionata, considerato che il viaggio dal 1967 al 2024 avviene in poco più di duecento pagine. Questa non vuole essere una osservazione quantitativa, anzi, il significato è opposto, la sottolineatura riguarda la ponderata accuratezza con cui sono stati selezionati i testi per rappresentare uno dei più affermati poeti italiani. E riguarda l’ottica dei recuperi, perché finalmente viene dato ampio spazio al periodo iniziale della poesia di Piersanti; non solo, come tutti sappiamo, perché i libri scompaiono presto dalle scaffalature delle librerie, ma per un motivo più pertinente, che ci permette di conoscere un Piersanti dolorosamente in contrasto con sé stesso e con il proprio tempo, soprattutto nelle poesie scelte da L’urlo della mente (oggi riedite da Samuele editore di Pordenone): “L’assurdo non ha / intaccato i luoghi / mentre sbatteva me / negli edifici serrati”. Sono testi che preludono all’uscita da un periodo molto combattuto, tra gli anni ’70 e ’80, ma che aiutano il poeta a costruirsi quella consapevolezza storico-esistenziale legata a un territorio elettivo che costituisce ancora oggi il suo sound profondo. Alcune poesie molto scolpite e lucide – in quegli anni di massimalismi minimi e fumosi – conducono, proprio nel contrasto con altri compagni di strada, ad una scelta che di lì a poco inaugurerà la sua stagione più suggestiva e nella quale troverà la sua voce più autentica, quella naturalistica e memoriale. Luoghi come le montagne e i boschi delle Cesane sono infatti l’opposto degli intellettualismi e delle eleganti e astratte composizioni che in genere – decriptate – mostrano messaggi desolatamente scontati. Piersanti invece è materico, usa intensamente i colori, li spande con la sua misurata cadenza nei versi, si espone in prima persona nella ricerca, scava, come direbbe Seamus Heaney.

Segnali di uno sguardo fermo sulle cose concrete si avvertono già in Nascere nel ’40 e in Passaggio di sequenza, quest’ultimo esplicito perfino nel titolo: libri che costituiscono appunto la cerniera verso “il canto magnanimo”, quel canto così aggettivato da Roberto Galaverni e Massimo Raffaeli nel saggio-intervista a lui dedicato. Infatti, diversamente dalle neo-elegie di paesaggisti contemporanei, i suoi versi aderiscono “allo spessore grosso delle cose”. Massimo Raffaeli, nella prefazione scritta con la consueta eleganza e profondità filologica all’Isola tra le selve, scrive che per raggiungere quello “spessore grosso” ci vuole “un punto di equilibrio e di nitore percettivo”; tale considerazione mi sembra un’ottima sintesi per la poesia di Umberto Piersanti. Concretezza ed equilibrio. Aggiungerei quel suo modo del tutto personale di trascolorare dall’elegia all’epica (comunque contrassegnate dalla precisione dell’onomastica botanica, che viene filtrata nel verso con una simpatia evocativa e fraterna). Se approfondiamo l’intuizione, ci accorgiamo che, senza richiamare l’epica classica, esiste nella poesia di Piersanti questo pervasivo coraggio individuale di confrontarsi a viso aperto con il mondo. Lo ha sempre fatto. La vita che scorre accanto a noi e nella quale siamo immersi, imprime nelle nostre coscienze sensazioni e immagini che, mentre sembrano svanire, rilasciano tracce. Umberto Piersanti le insegue da sempre e cerca di ricostruire quelle emozioni perdute, catturandole nei suoi prediletti settenari leopardiani, contrappuntati spesso da quinari, un po’ meno da endecasillabi. Non è tuttavia il respiro breve di una saggezza o nostalgia senile, a me sembra più un voler mettere a fuoco i particolari più minuti, della realtà e del linguaggio, per farli assaporare nella loro intima sonorità e corporalità.

Nelle poesie di Piersanti si condensano inoltre, richiamati dalla memoria o dall’attualità, pensieri che agiscono nella polis, che si inquietano nella polis, nel piccolo e nel grande disegno delle cose, nella Storia con la maiuscola e nelle storie individuali, che sono inevitabilmente intrecciate, almeno per chi non si chiama fuori oppure osserva ironicamente, come il duca d’Auge nei Fiori blu di Queneau, i residui della storia dai torrioni del suo castello. Piersanti vive con la propria ferita sensibilità nei drammi quotidiani. Del resto – come ci hanno raccontato Stendhal e Tolstoj – anche in una grande battaglia tutto si frantuma in vicende individuali, e ci sono coloro che ne respirano il senso storico ma sanno anche vedere, nello stesso tempo e contesto, un bosco, una radura, una collina o i disegni nel cielo di una nuvola di storni. “Ma di giuggiole, verdoni / e favagelli / ha senso parlare / nell’età del disincanto?”. Umberto Piersanti se lo chiede ma sa anche la risposta: sì, abbiamo un disperato bisogno di cose concrete, di parole vere, non di surrogati di sentimenti, abbiamo un disperato bisogno di ecologia vissuta e biodiversità culturale “nel freddo francescano di dicembre”.

Umberto Piersanti, L’isola tra le selve. Poesie scelte 1967-2024. Milano, Marcos y Marcos 2025. Prefazione e cura di Massimo Raffaeli, con una nota di Fabio Pusterla.

You may also like

Scritture

Il favagello

è d'un giallo squillante, nessun fiorel'uguaglia anche se prendi l'anno interocopre a febbraio ...

Leave a reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *