Storia e natura

Una delle pratiche più frequentate di dominio culturale – di “egemonia” avrebbe detto Gramsci – è senz’altro quella di inquadrare e catalogare i subalterni come prigionieri di una condizione naturale che comunque impedirà loro sistematicamente di fuoruscire dalle situazioni di sottomissione  a cui sono stati relegati dalle classi (e dai paesi) dominanti nel corso dei secoli. E’ tuttora la condizione in cui vengono classificati i paesi del terzo e quarto mondo, nonostante la loro apparente emancipazione dal giogo coloniale, ed è la condizione in cui vengono relegate le classi subalterne all’interno dei paesi dell’Occidente cosiddetto “evoluto”, da più di mezzo millennio dominatore pressoché incontrastato delle sorti del mondo.

Contro questa “naturalità” della condizione umana della sottomissione riemersa con prepotenza in questi ultimi decenni di ritorno del dominio assoluto e incontrastato del capitalismo più infame si batteva con veemenza in tempi non sospetti (i primi anni ‘40) uno studioso scomparso troppo presto  (una ventina di anni dopo) a cui la cultura italiana ed europea deve tantissimo anche se riconoscerlo a molti costa un’enorme fatica: Ernesto De Martino. Un autore eclettico, difficilmente catalogabile – etnologo? antropologo? filosofo? storico delle religioni? – riscoperto oggi, quasi in punta di piedi, non solo per i suoi volumi di ricerca “sul campo” – Il mondo magico, Sud e magia, La terra del rimorso – ma anche per le sue riflessioni di carattere più generale sulla valenza dei miti, sulla crisi della presenza e sulle apocalissi culturali grazie anche, in particolare, all’opera meritoria di uno studioso che ha dedicato a De Martino gran parte della sua attività scientifica: Marcello Massenzio con cui tanti anni fa mi laureai con una tesi su La fine del mondo, testo demartiniano riordinato e pubblicato postumo a cura di Clara Gallini.

Ma Massenzio non è il solo. Anche Goffredo Fofi con la sua Piccola Biblioteca Morale per i tipi della e/o ha contribuito alla riscoperta del pensiero del grande autore napoletano con un volumetto recentissimo a cura di Stefano De Matteis – Oltre Eboli – in cui attraverso tre saggi scanditi nel tempo vengono messi a fuoco tutti i limiti di un approccio naturalistico alle civiltà altre, modalità “scientifica” che ha una sua giustificazione (tutt’altro che naturale) nella storia reale del mondo, nel dominio coloniale anglo-sassone tra ‘800 e ‘900, legittimato artificialmente, nel senso comune, dalla presunta neutralità di una costruzione concettuale sulla superiorità (anche biologica, quindi razziale) della cosiddetta “civiltà occidentale” nei confronti dei popoli non ancora abbastanza “evoluti” (e ridotti a “cose”) e viene ancor di più inquadrata, attraverso una ricerca sul campo condotta in équipe alla periferia del paesino lucano di Tricarico, la condizione di sottomissione del mondo contadino locale e lo sforzo di fuoruscita da quella condizione attraverso modalità, riti e miti pre-moderni, dove questi ultimi più che essere segno di arretratezza della comunità rappresentano il tentativo effettuale, ricorrente, per quei “dannati della terra”, di andare , appunto, oltre Eboli, verso un processo (modernissimo) di liberazione politica e sociale . Per chiudere con un terzo contributo ad un convegno dell’Università di Perugia a un anno dalla scomparsa – siamo all’ultimo De Martino – sul rischio della nostra presenza al mondo, sul rischio radicale di perdersi e sulla necessità della ricostruzione di un nuovo ethos culturale umano in grado di garantire quella presenza continuamente minacciata.

Certo c’è una profonda amarezza pensando al livello di elaborazione culturale (e anche politica) di quegli anni in rapporto alla miseria corrente “dominata dal narcisismo, dal flusso delle mode, dalla decadenza di figure intellettuali forti, di ‘persuasioni’ e non di ‘retoriche’” (Fofi nella presentazione della collana). Amarezza che diventa ancora più grande pensando a quegli addetti americani di Amazon che bocciano in un referendum una loro possibile sindacalizzazione per consegnarsi mani e piedi come singoli, come individui e come schiavi in competizione tra loro, a quel grande benefattore dell’umanità che è il loro signore e padrone: l’ipermiliardario Jeff Bezos. 

“Il capitale vince perché è natura”, di questo refrain infame sembrano essere più convinti i nuovi modernissimi schiavi, i nuovi servi della gleba, rispetto ai loro padroni. A differenza, settant’anni fa, dei “primitivi” contadini di Tricarico che nel loro piccolo mondo “arcaico” alla naturalità della loro condizione non avevano mai creduto e avevano capito molto bene che quella “natura” era conseguenza della “storia”. E che era quest’ultima che andava rovesciata.

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