Le mie esperienze sciistiche sono lontane nel tempo e limitate; dal 1968 ai primi anni ‘70 trascorsi la settimana di Capodanno tra le montagne della Val di Fassa.

Avevo acquistato vecchi sci a modico prezzo, non calzavo veri scarponi da sci ma scarponi ad uso misto: scarponi con lacci e carrarmato, adatti a camminare sulla neve ma con una scanalatura nel tacco dove fissare gli attacchi di sicurezza degli sci; attacchi di sicurezza per modo di dire, visto che durante i miei frequenti capitomboli sulla neve, mai una volta che si fossero sganciati.

Non è che le mie settimane bianche fossero dedicate principalmente a sciare, anzi, alcune giornate le dedicavamo a visitare i luoghi splendidi della Val di Fassa, resi ancora più affascinanti dal manto bianco che li ricopriva. Ricordo, ad esempio, la vista d’incomparabile bellezza goduta dal rifugio Toni Demetz nella Forcella del Sassolungo o la discesa con lo slittino sulla strada ghiacciata (e priva di traffico) che scende dal Rifugio Gardeccia.

Per quando riguarda l’attività sciistica, non seguii mai lezioni di sci, riuscivo a mala pena a sciare a spazzaneve.

Un giorno ero salito in cestovia sul Buffaure; dopo avere passato la mattinata a sciare sulla pista servita dallo skilift, decisi di seguire altri (meno inesperti di me) e rientrare a Pozza di Fassa scendendo per una pista, che poi scoprii essere “nera”. Lascio immaginare le mie performance fantozziane – fui fantozziano ante litteram, visto che il libro “Fantozzi” non era stato ancora pubblicato. Più dei miei sci, fu il mio fondo schiena ad avere contatti con la neve.

Le mie esperienze da sciatore si sono concluse (ingloriosamente) prima che si consolidasse l’industria dello sci di massa, in Italia lo snowboard non esisteva ancora, non ho conosciuto i cannoni spara neve, i moderni impianti di risalita, le nuove piste da sci, larghe e lisce – mi dicono – come tavoli da biliardo.

Vivo in pianura, ho esperienze sciistiche quasi nulle e che risalgono a cinquant’anni fa e mi permetto di parlare di piste da sci? Mi sento di farlo in qualità di abitante di un pianeta febbricitante e di contribuente italiano – il solo innevamento con cannoni spara neve delle piste italiane costa 100 milioni di euro a stagione ed è quasi tutto sostenuto con denaro pubblico, tra l’altro i costi di mantenimento delle piste stanno lievitando di anno in anno in conseguenza dell’aumento delle temperature dovuto al cambiamento climatico (Cipra Italia, Torino, 27 novembre 2020).

Come può chi governa (a livello nazionale e locale) da un lato dichiarare di impegnarsi a favore della sostenibilità ambientale e dall’altro favorire (elargendo ingenti finanziamenti pubblici) forme di divertimento che comportano un ingente spreco di energia ed emissione di anidride carbonica?

Chi può ancora pensare che l’umanità, al punto in cui è arrivato il riscaldamento globale, possa ancora permettersi di consumare l’energia per produrre neve a quote dove prevalgono temperature sopra lo zero?

È giusto favorire il divertimento di alcuni spendendo il denaro di tanti altri contribuenti non-scianti (ben più numerosi) e che magari le montagne le vorrebbero non sbancate e spianate dai buldozer per eliminare gobbe e inciampi?

La chiusura delle piste da sci nel dicembre 2020 imposta dalla pandemia dovrebbe essere un’occasione per ripensare all’utilizzo invernale della montagna e puntare su altre forme di fruizione, come lo sci di fondo e l’escursionismo sia con le ciaspole che senza (dove la neve non c’è), forme che non prevedono pericolosi assembramenti e che non considerano la montagna al pari di un parco dei divertimenti.

Riporto un estratto dell’articolo Salvezza o collasso del geografo Franco Michieli comparso nel numero di novembre 2020 della rivista web “Dislivelli” dedicato alle stazioni sciistiche:

“… un ipotetico extraterrestre che capitasse sui nostri monti resterebbe di sale osservando la reazione a tutto questo da parte dell’uomo. Sulle catene montuose, ecco diramarsi migliaia e migliaia di chilometri di strisce di terreno rimodellate dalle ruspe e ricoperte di cristallini di ghiaccio grazie alla costruzione di immense strutture frigorifere all’aperto, in forma di cannoni collegati tra loro da tubature idrauliche e cavi elettrici. Mentre l’aria si fa sempre più mite, vedrebbe quei piccoli regni postmoderni che sono le stazioni sciistiche affidare ai super-freezer il compito di sostituire il cielo nel produrre la neve per diversi mesi di seguito. Se una civiltà in crisi impegna tante risorse in una tale impresa – si dirà l’extraterrestre -, il risultato sarà certo vitale per la sua sopravvivenza. E in effetti udrà echeggiare per le valli e sui media un grido ripetuto: «Solo gli impianti e le piste da sci possono salvare la montagna!». Quando poi constaterà che cosa è in effetti questo “sci”, ovvero una folla che si fa tirare su da teleferiche di varia foggia e che poi scivola giù sulle strisce ghiacciate artificiali ben cintate ai lati da reticolati arancioni, chi scodinzolando e chi a corpo morto, spesso emettendo urletti compiaciuti, e tutto si conclude dopo qualche ora nella ressa del self-service, finirà per concludere: «Ma questi sono matti!»”.

 

Didascalia foto:

Il ghiacciaio della Marmolada (visto da Passo Sella, luglio 2020) che rischia di scomparire in 15 anni a causa dei cambiamenti climatici

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