Quando scendeva

dall’astronave

dietro gli occhiali

da coleottero

nelle perle nere degli occhi

nascondeva

l’ardore immortale.

 

 

Quegli occhi! Conoscevano i doni

dell’intelligenza

dell’epoca presente

e di generazioni ormai passate:

farmaci atti a cancellare ogni male

fosse del corpo

che della mente,

la pena di infinite solitudini

nella vicinanza di soli avversi

o nelle notti vertiginose

attorno ai gorghi immensi

tra nebulose di polveri e gas

che nascondono

eterne insidie.

 

 

Lei lo portava verso

l’incandescenza

della materia

e sapeva difenderlo

nell’inferno delle radiazioni

con abili traiettorie concordate

istante per istante

come in simbiosi

con le intelligenze di bordo.

 

 

In quelle macchine riconosceva

l’amore degli antenati

la loro delicatezza e premura.

Erano per lei gli antenati stessi,

vegliavano su lei quando era spinta

nell’oblio per le lunghe notti nere

e con essi dialogava quando,

con impercettibili movimenti

delle ciglia,

modulava

i programmi silenziosi.

 

 

Tutti si sentivano di trattarla

con estrema gentilezza.

Una forza immensa

frutto di anni di contatto

con i vuoti dello spazio

si univa in lei

a commovente fragilità quando

scesa sulla terra incedeva incerta

in quella insolita

posizione verticale.

 

Di qui il senso di rispetto

e l’affetto che albergava

nei cuori e il commosso silenzio

che conquistava gli animi

di coloro cui il fato o il caso avevano

concesso di vedere.

 

Ma nel suo intimo non s’era placata

l’instancabile attività della mente

e di questo segretamente

si doleva e sentiva

che la depressione

era un mostro lì pronto a divorarla

e le sembrava di vedere la pena

di ogni essere

e a volte l’universo scintillante

le appariva

come un oceano

di male e di dolore. La tristezza

si affermava con tutta la potenza

della verità e tutti i suoi bei pensieri

erano allora solo vani

tentativi di non vedere

la certezza

della sconfitta finale

per tutte le specie dei viventi

e solo la materia inanimata

avrebbe trionfato.

 

Ma poi intuiva in un lampo

il senso di quella disperazione

e così si sentiva connessa

all’eterno e per un po’ si placava

e capiva che quella meraviglia

racchiusa nella scatola cranica

quel tesoro di impulsi a bassissimo

potenziale in neuroni, astrociti

e oligodendrociti

era un possesso comune a lei e a tutti

gli altri esseri e anche ai discendenti

e che mai sarebbe stata

del tutto sola.

 

Sospesa sullo strapiombo infinito

osservava il modo suo

di offrire a se stessa

le immagini di sé

con le loro altezze

e le divergenti profondità

alcune degne di professionisti

del turpe. E così si spiegava

quel sovrapporsi a volte

di intuizioni nella sua mente

di slanci e di remore,

l’accavallarsi di interpretazioni

a ondate contrapposte

come si fosse immersi in un mare

movimentato da imprevedibili

correnti abissali.

 

Pochissimi volevano lanciarsi

fino a là, nelle vaste coassiali

pianure del cielo…fino a Proxima

e lei là, di fronte al baratro orrendo

si vergognava

del suo personale dolore

e del suo ripiegarsi su di esso,

si rendeva conto che tutto quel

gran bacino della memoria

quel gran tesoro di ricordi

con tanta ansia preservato

era semplicemente nulla

a fronte a tutte le vicende

dei mille e mille soli

tutto d’intorno sospesi

ovunque nel vuoto…

con i loro mondi, le loro

diverse creature

e sostanze…

ma non poteva smetterla

quella pena che lacerava il cuore,

come una ferita sempre aperta

più dolorosa

al momento del risveglio

a prescindere dalla lunghezza

dei tempi programmati di sonno

nelle altitudini glaciali.

E sentiva che quella sofferenza

che mai la lasciava

era comune a tutta

l’umanità e lei ne era portatrice

verso l’incandescenza

e il suo progetto di riserva era

scagliare l’astronave

nello spazio intergalattico verso

S5 0014 + 81 e disperdere là

quel dolore, liberarne

la schiera dei discendenti

la moltitudine

degli esseri…

 

E l’avrebbe fatto

ne puoi essere certo

senza battere ciglio

non fosse stato il suo amore

per l’operetta

di Plotino e di Porfirio.

 

Quando scomparve, l’antica VIRGO

predispose tutto in gran fretta

e con essa anche l’antico

suo compagno LIGO

ma furono allertati anche

altri centri, vicini e lontani,

a sud e a est, a ovest e a nord:

il dipartimento

di studi astrofisici

Chorus of pulsars

di Castelluccio di Norcia,

Galactic solidarity, di Gamvik,

l’Accademia di astropsichiatria

Ocean of wisdom

di Shangai

Mother of the multiverse

di Dresda,

Cosmic diaspora, di Windhoek

e Flight of the eagle, di Pieve di Soligo.

 

Ma fu veramente quella la fine?

Nulla davvero resta di XβL?

 

I gioiellieri della piazza,

orafi di cui neanche si conosce

più il nome

prepararono un ciondolo bellissimo

con l’immagine di Nefertiti

e scrissero a retro

“ Gradevole a vedersi

bella come le Due Piume,

signora di gioia,

dispensatrice di grazia,

che dona felicità

a chi ode la sua voce.”

 

Così…come ad evocare

per cinquantaseiesima una grande

ondata gravitazionale, tale

che dilatasse lo spazio-tempo

asciugasse il pianto dagli occhi

rendesse ancora una volta possibile

il mai pensato e l’imponderabile.

 

Perché mai noi vorremmo sentirci soli

mai vorremmo che il dolce raggio degli occhi

cadesse nell’atroce nulla

che il suono delle stagioni cessasse

di rallegrare il cuore, inghiottito

dall’atra notte.

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