Questo dove va nella plastica o nell’indifferenziato? sto facendo bene la raccolta differenziata? Devo essere favorevole alla costruzione di un digestore dei rifiuti organici nel mio territorio? è meglio un digestore aerobico o anaerobico? Vale la pena di acquistare alimenti biologici? Va bene bere l’acqua del rubinetto se l’acquedotto, anziché dalla falda, si rifornisce dal fiume? Le onde elettromagnetiche dei cellulari fanno male alla salute? Mi devo preoccupare per quell’antenna per la telefonia installata vicino a casa? Le domeniche ecologiche (con chiusura del traffico in città) sono efficaci nel combattere le polveri sottili?

Una società sempre più complessa ci rende sempre più incompetenti ed incapaci di valutare l’impatto delle nostre azioni sull’ambiente, sulla qualità della vita e sulla nostra stessa salute. Anche se ci arrovelliamo e cerchiamo di tenere comportamenti il più possibile ecosostenibili – utilizziamo il più possibile la mobilità sostenibile, evitiamo di prendere l’ascensore, in inverno teniamo basso il riscaldamento, non combattiamo l’afa estiva installando un impianto d’aria condizionata, acquistiamo prodotti biologici e a km zero, trasformiamo un angolo della casa in un punto di raccolta differenziata -, restano dubbi sulla efficacia delle nostre azioni.

In tanti sosteniamo il passaggio dal motore a scoppio all’auto elettrica, più “pulita”, ma forse anche perché non vediamo in che modo, lontano da noi, l’energia elettrica viene prodotta; un po’ come non ci crea problemi comprare degli anonimi pezzi di carne mentre inorridiremmo se ci venissero mostrate le sofferenze degli animali negli allevamenti intensivi.

Va poi detto che a vivere con tutti questi dubbi è solo una parte della popolazione, tanti altri, o perché presi dall’esigenza primaria di sopravvivere o per insensibilità o per egoismo, queste domande non se le pongono neppure.

Siamo tutti, chi più chi meno, inconsapevoli. Persino coloro che commettono reati: preadolescenti colpevoli di atti di vandalismo, autisti che guidano ubriachi o con il cellulare in mano, tutti sembrano inconsapevoli della gravità delle proprie azioni.

La somma dei tanti comportamenti individuali si trasforma nell’inconsapevole comportamento collettivo della specie umana che sembra non tenere conto dei campanelli d’allarme, come i cambiamenti climatici e l’estinzione di massa di specie animali.

Questa inconsapevolezza planetaria mette a rischio la nostra civiltà, non il pianeta; il surriscaldamento globale è una febbricola che alla Terra passerà nel giro di pochi secoli.

Le parole contenute nel rapporto “I limiti dello sviluppo” redatto nel lontano 1972, commissionato al Massachusetts Institute of Technology (MIT) da Aurelio Peccei del Club di Roma, sembrano quelle di Cassandra, così come sono in gran parte inascoltate le parole di chi si batte per l’economia circolare, un modello di produzione e consumo che implica il riutilizzo ed il riciclo dei materiali e dei prodotti.

L’esplosione demografica e la cieca logica del consumismo spingono l’umanità a dilapidare le risorse naturali e a consumare energia per beni e servizi spesso voluttuari.

E se qualcuno, più o meno timidamente, parla della necessità di ridurre i consumi, nessuno se la sente di affrontare la questione demografica.

Anche se l’angolo di pianeta in cui viviamo è caratterizzato dal fenomeno delle culle vuote, l’esplosione demografica continua – a metà dell’800 eravamo 1 miliardo di persone, nel 1950 poco più di 2,5 miliardi, oggi siamo 7,8 miliardi -, in pratica la popolazione mondiale raddoppia ogni 40 anni. La specie umana sembra inconsapevole che per la sua sostenibilità l’allungamento delle speranze di vita dovrebbe andare di pari passo ad una riduzione della natalità – se stanno sparendo gli ultimi polmoni verdi del pianeta (le foreste del Borneo e dell’Amazzonia) per trasformarli in piantagioni e allevamenti, chi può pensare che la Terra sia in grado di sostenere un altro raddoppio della popolazione umana?

Assuefatta a questo modello di sviluppo, l’umanità continua ad estrarre i combustibili fossili, come un bambino che non riesce a fermarsi dallo svuotare il barattolo di marmellata, inconsapevole che gli procurerà il mal di pancia. D’altra parte, anche chi sostiene la transizione energetica, con l’abbandono del carbone e del petrolio in favore di energie “verdi”, non ha nessuna certezza che vivere senza i combustibili estratti dal sottosuolo sia compatibile con il livello di vita che i giacimenti fossili ci hanno finora garantito.

Gli impegni presi dai Grandi della Terra nei summit planetari, il green new deal tante volte annunciato, rimangono parole vuote mentre le emissioni globali di anidride carbonica (principali responsabili del surriscaldamento del pianeta) continuano ad aumentare.

Le democrazie occidentali sembrano invece ben consapevoli dei meccanismi per ottenere il consenso elettorale; chiedere agli elettori di vivere più sobriamente, impegnarli di più nella raccolta differenziata, spingerli a non utilizzare le auto, insomma rinunciare a dei comfort, non paga, meglio puntare su stili di vita da cicala che da formica (i gilet gialli sono scesi per le vie di Parigi contro una “tassa ecologica” che avrebbe aumentato il prezzo del petrolio).

*

Il pullman procedeva a notevole velocità su quella strada in piano senza curve; aveva gradatamente accelerato approfittando delle buone condizioni del nastro d’asfalto.

Il viaggio per raggiungere la meta finale, Cuccagna, era iniziato da parecchio tempo. Dopo l’ultima fermata, tutti i posti erano occupati, compresi gli strapuntini.

Molti animali erano stati travolti e uccisi durante la corsa, finiti sotto le ruote o mentre attraversavano o perché se ne stavano sulla strada stesi al sole.

All’esterno la temperatura era notevolmente salita ma il condizionatore, lavorando a pieno regime, manteneva fresca l’aria dentro l’abitacolo.

Da un po’, una fitta caligine limitava la visibilità; quel velo tinto di rosso era forse prodotto dal fumo di una lontana foresta in fiamme o da una tempesta di sabbia del deserto che si estendeva tutto attorno.

Attraverso quella cortina, alcuni passeggeri credettero di scorgere un’interruzione della strada all’orizzonte; secondo loro la corsa su quel nastro bituminoso si sarebbe conclusa con un salto nel vuoto. Lo fecero presente ai due autisti del pullman. Quello che in quel momento stava guidando era di origine asiatica, l’altro si era tolto il berretto con la visiera, liberando una capigliatura vaporosa tra il biondo e l’arancione. I due autisti interruppero la loro discussione (riguardava i dazi doganali).

Donald, il secondo autista, fissò coloro che sostenevano di avere scorto il baratro. Non si stupì di quella passeggera dal look alternativo, “chissà che cosa si sarà fumata”, pensò; mentre sul look dell’altro passeggero non aveva niente da ridire, sembrava uno scienziato diretto ad un congresso. Prese il microfono e, senza neanche scomodarsi di guardare attraverso la caligine, tranquillizzò i passeggeri: «Non c’è alcun precipizio all’orizzonte; quelli che dicono di averlo visto sono soltanto profeti di sventura che stanno creando un allarme ingiustificato».

Visto che quei passeggeri continuavano a sostenere di vedere il baratro, prese la parola pure l’altro autista; l’asiatico impegnato al volante non aveva cambiato la direzione del pullman e nemmeno rallentato, anzi il suo piede aveva pigiato ancora di più sull’acceleratore; si limitò a dire: «Tra dieci minuti ridurremo la velocità, la riporteremo a quella che avevamo un’ora fa».

La maggior parte dei passeggeri non solo non si era accorta dove il mezzo si stava dirigendo, non aveva neppure ascoltato gli interventi degli autisti. Alcuni – dal colore della pelle si intuiva che erano del terzo mondo -, stavano in silenzio, lo sguardo rivolto al finestrino ma non guardavano il paesaggio reso ovattato dalla caligine, pensavano ad altro, a sbarcare il lunario, a sfamare le tante bocche che dipendevano da loro. Altri passeggeri – che non avevano il problema della pancia da riempire – stavano invece chiacchierando piacevolmente oppure erano impegnati al cellulare: chi telefonava per lavoro, chi per trattare affari, chi per organizzare una festa nel prossimo week end. Molti giovani passeggeri non si erano accorti di nulla in quanto, ad occhi chiusi, stavano ascoltando la musica dalle cuffiette. Tanti altri, più o meno giovani, avevano gli occhi puntati sui display illuminati dei loro smartphone, felici di essere connessi. In fondo al pullman si erano radunati i tifosi di una squadra in trasferta e tra una birra e l’altra intonavano dei cori; alcuni si misero a saltare insieme al ritmo di “Chi non salta è …” tra le lattine vuote che ingombravano il pavimento.

Tra coloro che credevano che il pullman sarebbe finito in un precipizio se avesse proseguito la sua corsa su quel nastro catramoso vi era una ragazzina con le trecce dall’espressione corrucciata. Le dichiarazioni degli autisti non l’avevano affatto tranquillizzata; si diresse verso loro, prese il microfono per urlarvi dentro la sua rabbia: «Ma come vi permettete di non ascoltarci, state giocando con le nostre vite!». Infastidito, il secondo autista gli strappò il microfono di mano: «Ma guarda questa, è soltanto una ragazzina e vuole mettere in discussione il nostro operato!».

Ma di quel diverbio si accorsero in pochi, quasi tutti continuarono a chiacchierare, ad ascoltare musica, a chattare, a parlare di affari, ad intonare cori, a sognare un week end da sballo. Il pullman, sempre più veloce, proseguì la sua corsa.

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