I petali delle rose bianche
che Augusto ci aveva regalato
si sono aperti nel pomeriggio e hanno profumato
deliziosamente la stanza. Questa mattina
mentre mi facevo la barba pensavo alla teologia
abitudinaria, che cerca quello che trova.
Guardandomi allo specchio ironicamente
mezzo sbarbato mi sono detto che la parola fine
non significa niente, non c’è fine per noi.
Più tardi nella stanza ho visto che i petali
sono caduti e l’odore scomparso.
“Mignonne, allons voir si la rose / qui ce matin avait déclose / sa robe de pourpre au soleil” … Pierre de Ronsard, quando non era impegnato ad adulare i potenti, usava la poesia per incantare e sedurre. Difficile resistere ad un invito così fascinoso: mignonne, la rosa, i petali dischiusi … senonché il poeta sapeva molto bene che stava parlando non di petali presto sfioriti, non della bellezza svanita né di rimpianti, ma di un tempo che è sempre e solo un’illusione. Sapeva che alla sua Mignonne, come a noi, era destinato solo un frattempo in cui da un piccolo, apparentemente disordinato, ma curatissimo ed amato giardino di città, chiuso tra due edifici, Augusto ha raccolto delle rose bianche e le ha regalate. Nella poesia europea, nei secoli e fin dentro ai nostri giorni, anche in forme molto pop, c’è stato un grande viavai di rose bianche, rosse, più o meno profumate, appena sbocciate, subito sfiorite. Marco Ferri è troppo raffinato poeta, elegante traduttore, attento studioso per ignorare quello a cui ho appena accennato.
Le rose di Augusto fanno il loro dovere: profumano una stanza, ma la mattina, questa mattina non una qualsiasi, si imbattono in “uno che davanti allo specchio / guarda la sua faccia riflessa, presentabile e un po’ pirla” (uno, non necessariamente l’autore, si descrive così nella poesia di p.24). Questa volta si sta rasando ed è arrivato a metà di un’azione quotidiana e insignificante. Pensieri in libertà ruotano attorno alla teologia che non sa più porre a sé stessa e a noi domande pericolose e trova, proprio per questo, facili scorciatoie che si inabissano in una stanca e noiosa litania. La teologia cerca qualche risposta rassicurante e quella trova, vanificando ogni ricerca ed ogni ritrovamento in un cerchio tautologico che supporta ogni perdita di senso. C’è interrogativo più serio, più profondo, più umano di quello che cerca una qualche risposta sul fine, sul senso del nostro essere al mondo? Nel silenzio che fa da eco a questa domanda, rotto talvolta dalla solita tiritera, il poeta afferma che non c’è alcun fine per noi. In un torsione fortemente etica, la soggettività insistita, quell’io onnipresente, lascia il posto ad un noi, a un comune destino che ci consegna a un non fine doloroso e privo di misericordia. Non c’è più l’io, ma il noi del secondo verso (Augusto ci ha regalato), e il per noi del terzultimo. Tra questi due pronomi personali plurali è incastonato il componimento. L’avverbio di modo deliziosamente fa da punto di vista concettuale rimando con ironicamente ed è questo l’ultimo avverbio che offre a chi legge la chiave interpretativa per collocare la poesia in un contesto che la sottrae ad ogni interpretazione riduttiva e trasforma una gentile e amicale poesia d’occasione in una riflessione che trova nell’ironia la sua cifra inconfondibile.
Parla del nulla della nostra quotidianità e ci trascina dentro le grandi costruzioni metafisiche, teologiche, ideologiche. Appunto: non da una cattedra, non da una tribuna, non da un pulpito, ma da una stanza, da un luogo vissuto e domestico, da una cucina, da un bagno, domande inesauste trovano una nuova e inedita dignità, priva di ogni consolazione, segno di un eterno interrogarsi.
La trama dei suoni è costruita in funzione di una eco che viene dal profondo. Le rime ci accompagnano là dove vuole il poeta: regalato, profumato, sbarbato. Particelle minime del discorso sembrano inseguirsi per tutto il componimento: ci aveva regalato, si sono aperte, mi facevo la barba, guardandomi, mi sono detto – e sembrano tutte convergere nel noi del terzultimo verso. Una lingua colloquiale e piana all’improvviso si inceppa in una ripetitività che sembra non ammettere repliche: fine, non significa niente, non c’è fine (per noi).
Come da copione la rose di Augusto sono sfiorite e il loro profumo, trasformatosi in un banale odore, è svanito, ma la poesia ha ancora una volta operato il suo incantamento e in un frattempo magico e irripetibile, anche noi abbiamo sentito quel profumo.
Grazie, Marco.
[Una delle rose più belle porta il nome del poeta Pierre de Ronsard (1524-1585)]
In copertina, una fotografia di Paolo Talevi, che non interpreta ma aggiunge altri percorsi emotivi.