1. A cinque mesi dalle elezioni del 4 marzo restano in campo solo due forme diverse (ma molto simili) di barbarie: quella tribale e quella digitale accomunate entrambe dal rifiuto della democrazia parlamentare, della rappresentanza e della ripartizione destra/sinistra ereditate dalla Rivoluzione francese. Dopo il 1917 anche il 1789 è finito, non per andare avanti, come ci racconta la stupidità dei “progressisti”, ma per tornare indietro, ai “secoli bui”. Il ritorno al Medioevo comporta il (naturale) ritorno alle sue connaturate e caotiche forme pre-politiche: dai briganti ai banditi della foresta, dalle jacquerie ai ciompi. E’ l’eterogenesi dei fini: l’iper-globalizzazione, la sua guardia armata – l’Unione europea -, i mercati, lo sviluppo esasperato delle tecnologie e del mondo virtuale hanno dimenticato e lasciato a terra quello reale fatto di sofferenza e disperazione; questo si è preso la sua (presunta) rivincita resuscitando un tempo storico primitivo percepito come unico sbarramento alla precipitazione verso la fine. Al diavolo monarchia e repubblica, destra e sinistra, democrazia e dittatura, diritto e giustizia! La forza brutale e passiva del popolo tornato plebe ha finito per travolgere i perni del sistema politico della seconda repubblica, troppo compromessi con l’ordine imperiale del capitale finanziario globale: la destra devota e gaudente e la sinistra laica ed austera.

 

  1. Senza più rappresentanza reale, dal 4 marzo siamo nel pieno di una finzione perché, in realtà, nessuno dei vincitori pensa minimamente di contrapporsi all’ordine globale esistente; d’altronde oggi basta poco, basta fare finta – magari urlando un po’ più degli altri – per conquistare grande seguito in mezzo a chi non ha da perdere più neanche le proprie catene e si sente affossato ogni giorno di più da chi ha gestito, a nome e per conto delle élite, la transizione alle “meraviglie” del terzo millennio tanto simili a quelle del primo.

Ormai tutti fanno parte della stessa rappresentazione. I registi, sempre gli stessi, avevano solo bisogno di interpreti più diretti e aggressivi per continuare a mettere in scena lo stesso copione. Nel mondo del capitale finanziario globale l’alternativa non c’è. In realtà quella che i media definiscono rivolta anti-sistemica è solo finzione, altro non è che un’ulteriore forma di subordinazione pianificata e tenacemente perseguita dai padroni del mondo – quelli veri non quelli fasulli interpretati da un ceto politico di analfabeti senza cuore e senza cervello – per affermare una volta per tutte la governance globale (e autoritaria) dei consigli di amministrazione contro le forme della rappresentanza garantite dalle “ingombranti” costituzioni democratiche figlie delle guerre di liberazione e della grande stagione post-bellica. .

Scomparendo ogni percezione di appartenenza ad una classe sociale con i propri interessi materiali e i propri valori si entra nel piccolo/grande teatrino del villaggio glo/cale dove ogni forma di ribellione diventa manifestazione disperata dei vinti dalla globalizzazione – destinati a perdere sempre – da cui stare alla larga per evitare di rivelare a sé stessi verità inconfessabili: meglio la caccia al negro o i sogni fatati della rete, i passatempi consentiti dalle “magie” della globalizzazione feudale!

Dietro all’apparente fluidità del consenso elettorale si nasconde una rigidità delle appartenenze sociali e culturali che sembrava superata da secoli. Si rovescia sostanzialmente il rapporto tra “partiti”ed”elettori”: se prima era il partito a proporsi come soggetto “rigido” e attivo che trascinava l’elettore – con il suo profilo ideale, il suo programma e il suo blocco sociale di riferimento – ad aderire, attraverso il mandato elettorale, alla propria visione del mondo ora è l’elettore, chiuso dentro la propria statica dimensione antropologica, a esprimere un consenso passeggero per un prodotto confezionato esclusivamente per il “mercato elettorale” dal singolo partito “leggero” e “ultra-flessibile” semplicemente in base alla coerenza tra quel prodotto e la propria inossidabile e illusoria percezione di sé vissuta all’istante. Si va al seggio come al supermercato, si guardano i prodotti in commercio, si sceglie quello che, secondo la pubblicità (elettorale) interpreta meglio la propria falsa coscienza e la sera, se non si va dormire, si attende alla tv l’esito di questo noioso reality per cui ci si infervora – sbraitando – in poltrona.

L’istantanea del 4 marzo e le immagini in movimento dei mesi successivi sono molto più comprensibili dall’antropologia, che dalla politica. La politica non c’è più.

 

  1. In questo contesto non c’è più spazio per i compromessi: questi devono essere i tempi di una resistenza feroce! Se la sfida torna all’anno mille è necessario tornare a battersi contro la ferocia connaturata a quell’epoca magari adattando, un millennio dopo, gli strumenti, le modalità e le strategie dei monaci benedettini – sulla lunga durata, i vincitori di allora – con la stessa coscienza inesausta di “essere nel mondo ma non di questo mondo” (S. Paolo)!!!

In questo inizio di ventunesimo secolo siamo ben prima dei tradizionali “conflitti di classe” otto/novecenteschi, siamo in una situazione di in/coscienza di massa nella quale è del tutto inutile e fuorviante qualunque invito alla lotta e al conflitto. “Le masse sono stanche”, avrebbe detto qualcuno mezzo secolo fa, e preferiscono solo, ogni tanto, interrompere il loro stato di in/coscienza assistendo (in tv o sul web) alle fiction stantìe di leader noiosi e puerili per poi scimmiottarne il vuoto di argomentazioni e di idee nelle dispute del bar sotto casa. Una nuova dimensione antropologica in grado di contrastare l’indifferenza si acquisisce solo nella condivisione materiale e spirituale di tempi e di luoghi dai quali combattere la degenerazione tribale e digitale attraverso una ricomposizione tra sapere e potere; tempi e luoghi da cui ricominciare a studiare collettivamente i “classici” e i “contemporanei” per riprendere a capire e ad agire senza le ansie da “prestazione elettorale”, nella consapevolezza che la traversata non sarà breve e avendo soprattutto ben chiaro che quei tempi e quei luoghi non coincidono più con quelli della “produzione” e della “formazione” dove, su licenza della Silicon Valley, si lavora alacremente alla costruzione post-umana dell’uomo algoritmico attraverso le forme più insinuanti e pervasive della teologia del momento, quella computazionale.

Sottrarre quote crescenti di umani ai circuiti della barbarie mostrando come l’acquisizione di un sapere (e di una cultura critica) non si fa distrarre dalla litania petulante dei diritti ma punta decisamente a mettere in discussione, corrodere e demolire la dura materialità dei poteri esistenti per affermare alla fine un potere nuovo, senza più servi, costituente! Questo era, un secolo fa, il tentativo de l’Ordine Nuovo di Gramsci (e, venticinque anni dopo, quello di una parte minoritaria del movimento di liberazione); ora, ahimé, siamo tornati più indietro: l’esperienza torinese era vissuta da chi, avendo già fatto una scelta, trovava in quel gruppo la forza per dare un senso compiuto alla propria militanza politica, magari rischiando la vita; ora, invece, si tratta di comporre spazi e tempi che siano anche luoghi di formazione e auto-formazione dove dare vita a una nuova alfabetizzazione in grado di costruire con curiosità e passione nuovi canoni di interpretazione della realtà attraverso il pensiero che si fa parola, scrittura e azione utilizzando strumenti magari modesti (forse, per qualcuno, obsoleti) – piccole riviste, periodici on-line, letture in comune, seminari – per condividere con un numero crescente di soggetti individuali la possibilità di una scelta diversa e lontana dalla volgarità mercantile, una scelta altra che da individuale diventi sempre più collettiva trasfigurandosi in una scelta “in comune”. Perché “la semplicità che è difficile a farsi” (Brecht) va costruita edificando con tenacia quei luoghi molecolari di disciplina interiore in cui riprendere la sfida ricostruendo una cultura (e una politica) che torna a porsi l’obiettivo minimo di cambiare questo mondo inguardabile ricamando ogni giorno il tempo in cui poter rialzare la testa e annientare finalmente la barbarie.

 

[nell’immagine, una luna rossa, fotografia di Virgilio Dionisi]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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