Qualche sera fa ho rivisto 2001 odissea nello spazio. Non è abbastanza dire che ho visto questo film, non vengono coinvolti solo vista e udito ma attraverso vista e udito il film dialoga in continuazione con varie parti del cervello, direi che ne coinvolge parecchie. Di fronte alla Madonna di Senigallia di Piero della Francesca ho provato una curiosità e un’attrazione molto simili. Non credo che questo racconto di Stanley Kubrick abbia bisogno di spiegazioni. È una riflessione narrativa e poetica per immagini, sulla nostra specie. Da dove veniamo, primo capitolo. La telecamera sembra quasi nascosta dietro una roccia preistorica. Sbirciamo in una geografia senza storia. E Kubrick suggerisce che forse una civiltà più evoluta possa averci aiutato a uscire dal guscio terrestre. Nel secondo episodio viaggiamo nel meraviglioso universo che ci circonda, godendo delle nostre invenzioni tecnologiche e interrogando ogni segnale che proviene dalle profondità dello spazio e della nostra coscienza. Ma la tecnologia – terzo episodio – tanto è più raffinata e perfezionata quanto è inquietante e precaria. Però non abbiamo altro per difenderci. È l’unica possibilità che abbiamo. Questo è il nostro viaggio e il nostro destino. Quarto e ultimo episodio: andare oltre. Oltre la velocità della luce, verso altre forme, altri colori, seguendo una curvatura dello spazio dove il tempo perde ogni significato. Un multiverso, diremmo oggi. Ma nel 1968 bisognava essere degli artisti geniali e profondi per immaginarlo, o per immaginare una luna che sarebbe stata visitata dall’uomo solo un anno dopo. Alle domande elementari della vita Kubrick offre un immaginario elementare, che ha sostituito filosofia e teologia con la tecnologia e la matematica, e gli eccessi passionali e distruttivi con il ragionamento e gli affetti. Non c’è orgoglio e neanche superbia scientifica, ma pieno godimento della tecnica, navigando nello spazio con i valzer di Strauss. Poi le musiche cambiano. Diventano suoni stridenti, terrificanti, al limite dell’udibile. E ci troviamo infine in un luogo che sembra un assemblaggio di arredi antichi e moderni, mobili rococò e pavimenti illuminati che non si sa bene su che cosa poggino, un luogo che non ha un fuori e un dentro, un prima e un dopo. Ed è qui che il racconto termina (e la specie umana si estingue?). Questo film è come il monolito dissotterrato sotto gli strati delle sabbie lunari, e la sua perfezione come manufatto artistico e tecnologico rivela l’esistenza di una civiltà superiore. Ma dove si sarà nascosta? Ci invia ancora dei messaggi?
In copertina un quadro di Stefano Paci, No relations. A fianco del testo un quadro di Giovanni Bellantuono, Senza titolo.