Teobaldi è Teobaldi, mi dico appena chiuso il suo Arenaria, pubblicato a fine febbraio dalle edizioni e/o. Suggerire ascendenze letterarie è inutile. Sono facili da intuire o annusare, Manzoni Gadda Bianciardi, ma non servono. In questo caso meno ancora, perché tutti gli indizi portano a indentificare la figura dell’autore in Teobaldi Paolo, di Pesaro, un narratore con una sua fisionomia originale, con una sua voce, molto simile alle voci che si sentono dalle sue parti, eppure diversa, in quanto la sua antropologia non riguarda soltanto le persone ma pure il linguaggio. E poi c’è un fatto nuovo. Teobaldi in questo libro non si maschera, racconta direttamente alla nipotina le storie che ha raccolto in lunghe camminate sul San Bartolo, così il colle del San Bartolo, questa affascinante impennata geologica a un passo dalla città, diventa il vero soggetto del libro. Attraverso i racconti si delinea la figura storica e geografica del San Bartolo, a seconda delle quote sul livello del mare, che ogni capitolo indica scrupolosamente. Leggo il libro di Teobaldi insieme a quello di Richard Sennett, Costruire e abitare. Etica per la città, e trovo delle consonanze sorprendenti. Certo, sono cose diverse. Ma quando Sennett dice: “l’ambiente fisico sembra scaturire dal modo in cui abitiamo un luogo e da chi siamo davvero”, ecco che si accende la lampadina. La morfologia di un luogo rivela chi siamo davvero, dietro le apparenze convenzionali, le apparenze che sono comunque necessarie, e verso le quali il narratore mostra la sua consueta delicatezza, quella delicatezza che aveva posto in esergo a Il padre dei nomi, citando Raffaello Baldini; tuttavia in questo romanzo le storie non si sommano ma si cuciono insieme come le pezze di una coperta di lana. Una coperta variegata, costruita con la passione di un alto artigianato lessicale, per una nipotina che “vai a sapere che lingua, quali lingue, quante lingue” parlerà.

A questo punto la prosa di Arenaria acquista una risonanza testimoniale. Però è come indicare una strada (e le sue quote, le spianate, la casa sommersa, i lavori) per non dimenticare, per non abbandonarsi alla fretta quotidiana delle ore, e soprattutto per imparare ad amare i luoghi. A volte i nativi hanno la vista offuscata verso tutto quello che vedono ogni giorno. Non è vero che i nativi e solo loro conservano il sacro fuoco identitario. Aristotele lo sapeva, se nella Politica, cito ancora Sennett, dice: “Una città è composta da tipi diversi di uomini; le persone simili non possono dar vita a una città”. A parte il maschilismo aristotelico, oggi imbarazzante, va rilevato come Teobaldi sappia ascoltare tutti e offrire la propria voce per trasformare l’oralità in letteratura. Dunque l’impostazione di Teobaldi, apparentemente semplice, il nonno che racconta alla nipotina, anzi il nonno Paolo Teobaldi che racconta alla sua nipotina Julie, è prodigiosamente efficace, nel senso che riesce a semplificare esperienze complicate, che nella memoria dei singoli e nell’eufemismo della memoria collettiva si sono stratificate, proprio come le fette di arenaria del San Bartolo e i linguaggi che le persone usano ogni giorno. La prosa analitica di Paolo Teobaldi è mimetica, si modella sul parlato, ma ne esce ogni tanto, prende le distanze, si guarda da fuori, si tuffa di nuovo in quel liquido amniotico, gode della meraviglia di quei suoni, riprende il sentiero abbandonato di una storia, insomma sembra accompagnare passo dopo passo il lettore e Julie. E le storie servono per intrattenere e affascinare, come durante una passeggiata per non avvertire la fatica del camminare, una fatica che è molto simile a quella del lettore disabituato al valore delle cose e delle parole.

Il messaggio sotto o dietro le righe del testo, mentre si vaga e divaga in salita e in discesa, a caldese o vernìo, nei posti baciati dal sole o dall’ombra è: guardatevi attorno, è bellissimo, drammatico e bellissimo.

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